Al Teatro del caffè. Massimo Bonini

San Secondo Parmense. Torrefazione Lady Cafè. Mattina nebbiosa.
Capannone diviso in due. Dall’altra parte lavora e produce Attilio Cavalli, macellaio e ultimo resistente della spalla cotta di San Secondo.
Entro in torrefazione. Scorgo Massimo dietro ad uno strumento. Scambio di cortesie. “Pensavo fossi più vecchio”, lui. Onorato lo seguo. Ma in maniera differente rispetto alla stragrande maggioranza delle code e dei maestri. Nessuna sicurezza e nemmeno arroganza. Dopo un minuto, avevo capito che l’uomo andava oltre qualunque tipo di dottrina, teoria, filosofia o storia della civiltà. Ne avevo davanti uno.
Occhi magnetici, tenuta da lavoro, umanità e complessità rare. In pochi momenti, ho declinato qualunque aspettativa e ogni difficoltà, che temevo di trovare su un percorso così complesso (quello della bevanda “più bevuta e meno conosciuta al mondo”).
La nebbia è stata solcata dai lampi della sua Tostatrice Vittoria 1954, una macchina dal fascino impossibile, catatonico e sonnolento. Una mangiafuoco con tutto quello che comporta in termini di stupore, timore e alchimia. Magica e rumorosa.
Lavora con il metodo a torcia che consente al frutto, ancora crudo, di ricevere una tostatura diretta dalla fiamma, in maniera rapida e a bassa temperatura, “così da esaltarne gli aromi e le caratteristiche essenziali”. Quando il chicco si spezza tra i denti, ancora caldo, rilascia dolcezza in una mistura di sabbiosità, pulizia e saturazione.
Massimo si scusa, ma il caffè non può attenderlo. Lavora, chiacchiera, mostra e insegna.
Definisce Gianni Frasi come “Il Maestro”, ma lo fa tra l’ironico e il deferente. “Se tu vai da lui e gli dici di Massimo Bonini, fa finta di non conoscermi”. Eppure l’illuminazione è arrivata per mezzo di questo personaggio di rara comunicazione.
Un giorno al Vinitaly (ma non ne sono sicuro), Massimo ha assaggiato un suo caffè ed è andato oltre, non capendo quello che gli era passato attraverso. Rilassatosi, è tornato indietro. Voleva prenderne un kilo da provare nella pasticceria di suo padre.
Pare che “Il Maestro” non gliel’abbia voluto vendere al ritmo di “Non c’è bisogno che tu lo provi, l’ho già provato io”. Ecco Gianni Frasi, un funambolo dell’oro nero, che conosce come pochi, senza nemmeno la necessità o la voluttà della tostatura.
Piacere di cui Massimo non potrebbe mai fare a meno. Anche quando è costretto a scontrarsi con la critica disattenta o con le multinazionali che non permettono al suo prodotto se non piccoli e contenuti movimenti.
La cultura del caffè, anche a livello di grandi chef, riporta l’immagine di un paese superficiale ma molto bravo a svendersi.
Dei sette tristellati Michelin, eccetto Bottura (che collabora con Leonardo Lelli), Alajmo (con Gianni Frasi, ancorchè, da poche parole di Massimo, capisco che il filtro non è del tutto pulito…) e forse Pinchiorri, sono tutti vittime dell’industria. A partire da Nadia Santini (che Massimo mi dipinge in maniera eterea), che vorrebbe ma non può…
“Pensa se questi chef fossero costretti a utilizzare la Nutella, al posto della pasta di nocciole di Emanuele Canaparo o il cioccolato Lindt al posto di Domori… chiuderebbero domani. La gente smetterebbe di andarci. Invece usano il Lavazza e nessuno appulcra verbo…”.
È terribile. Anche perchè la considerazione e la voglia di crescere sono in continuo fermento artistico e anche perchè chef come Ferran Adrià e Massimo Bottura hanno definito “formidabile” una delle creazioni di cui va più fiero, la pasta di caffè: base per pasticceria, gelateria, estremizzazione per una possibile panificazione (Davide Longoni ne ha in mano un barattolo e sono in fervida attesa del risultato…) e fantasia molecolare (pare che Paola Budel ne abbia tratto un piatto con il pesce…).
L’estratto di caffè che se ne ricava ottiene subito il consenso del palato che si paralizza e inizia a sublimare…
Il dialogo è intessuto con alcuni assaggi che mi hanno, letteralmente (e fuori di metafora) iniziato al caffè:

– India Colonia 1885 M.B: arabica lavato ad acqua (ma tutti i suoi caffè lo sono… miscele e robuste sono bandite… “La robusta non è caffè”), estratto ad espresso dalla sua Faema (quando Massimo prende in mano il libro strutturato e scritto sull’azienda produttrice milanese si emoziona fin quasi alle lacrime, come se i ricordi, vissuti indirettamente, surrogassero l’assenza, rendendo più vividi alcuni passaggi, alcune immagini e le foto di un mondo che non c’è più, quello delle macchine del caffè messe al centro del bancone, di fronte al barista che in quel modo riusciva ad osservare tutti i tavolini e tutti i clienti, gestendo le comande… la bella mostra è diventata due spalle incurvate ed incapaci….). È stata la meno maoista delle rivoluzioni culturali: la prima volta, di nome, di fatto, di bellezza e di unicità. L’acidità di partenza lascia tracce di dolcezza in un misto di complessità e asimmetria. Non si riesce a cogliere un odore o un sapore. Un misto di profumi inconsapevoli ma precisi si alternano dalla mandorla al cioccolato. Un caffè da pomeriggio. Rilascia in bocca una situazione. Ecco tutto…

  – Altura Luz Supremo: meno acido, più fruttato in apertura, con ritorni di tostatura quasi estremizzati. Denso e corposo, la coltivazione è quella di Francisco DelaVequia, grande esperto di caffè (buon passatempo per alternare le sue reali attività…) che nelle sue piantagioni lo degusta con il metodo del PressoFiltro (unica maniera che, per infusione, non permette all’acqua di attraversare la polvere di caffè ma la mantiene a contatto per un tempo tra i 5 e i 7 minuti).
L’impatto è più blando rispetto ad un espresso, dove il sapore si concentra in maniera immediata. Gli aromi si espandono, esaltando il retrogusto e il tempo… La delicatezza è quasi selvaggia almeno quanto il sorriso di Massimo…

  – Altura Luz Caracol: selezione, dalla stessa piantagione di prima, del chicco singolo separato con precisione maniacale. Più acido e molto aromatico con una grande concentrazione di olii essenziali. Strepitoso.

Massimo, durante gli assaggi, continua ad indicare, raccontare e lavorare, con la passione di chi ha il dovere di non poter stare fermo. Il caffè lo richiede. I tempi possono essere brevi o lunghi ma sono comunque limitati. Il chicco e la polvere esaltano il sapore e poi degradano, lasciano poco spazio alla fantasia e all’immaginazione.
Quelle sono concentrate tutte nella tazzina, dove cercare il fato, la fine, l’universo intero, in un movimento godardiano che ruota e trova il mare, che gira e trova le montagne e si spegne in una spuma di schiuma che sgonfia bolle, stelle lontane e buio ancestrale…
Massimo è un ragazzo, in tenuta da lavoro, che dopo tre minuti, mi ha preso l’ammirazione e l’ha trasformata in una relazione, a metà tra l’amore e il fuoco…

TORREFAZIONE LADY CAFE’
VIA VERDI, 31
SAN SECONDO PARMENSE (PR)

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