Alla ricerca del Bagoss perduto… Amerigo Salvadori

Bagolino. Un paese cominciato a ridosso del lago d’Idro, con quel colore nero, a metà strada tra Loch Ness e lo sterco di vacca, che a guardarlo dai tornanti non sembra nemmeno reale. Fermo, silenzioso, poche spiagge, ancora meno turisti e porticcioli lapidari, sul lato orientale, a prendere qualche windsurf, qualche tenda da campeggio e qualche tedesco sperdutosi in Val Vestino e sceso dal versante sbagliato. Magia e sfruttamento, come solo queste insenature tra le montagne riescono ancora a regalare. Basta uno specchio d’acqua a rendere inutile lo sforzo della dimostrazione.

Ma decido di abbandonarlo. Inizio a percorrere alcuni tornanti che si immettono sullla salita verso il passo Croce Domini, supero un paio di canyon, mi lascio alle spalle un centro storico di mezza montagna, con i suoi sguardi curiosi, un filo ludici e un filo lubrici, con le sue perpetue nella reiterata abitudine del chiacchiericcio, valico un ponte su quel fiume Caffaro, placido il giusto, che lascia la memoria di una roccia affiorante, e m’immetto tra i tornanti verso il Passo Maniva. La strada si stringe, gli alberi s’infittiscono sul desiderio di ragione, e mi accorgo di aver sbagliato strada… un cartello monocromo e un uomo col cappello in testa mi richiamano all’ordine: Azienda Agricola di Amerigo Salvadori, un cognome presagio di redenzione.

Il formaggio della mattina è quasi ultimato, mancano il taglio e le fascere. Colatura del siero, pietre con l’aspetto di una campana, ribaltamento delle forme e un caseificio che sembra estratto dai reportage di Mario Soldati lungo le sponde del Po o tra le popolazioni pugliesi. In quell’Italia a cavallo tra Ave Ninchi e il ritardo dello yuppismo. Dove ancora le valli e gli artigiani di montagna erano un sapere assolutamente de-industrializzato, fuori target, lontano dal mondo… Quel camino annerito, quella caldera in rame con spino annesso, quella luce che salta costantemente sotto la pressione degli agenti atmosferici e quelle sferzate che penetrano tra le fessure di porte in legno secolari sono quell’unico folclore che rimane acquietato, al di sopra della patina dell’industrialotto bresciano, alla ricerca del colpo da novanta con un bagoss d’annata, e al di sotto della straordinaria capacità di Amerigo di stare al passo coi tempi, portare le vacche in alpeggio e costruirsi una famiglia che, dei mezzi denti di Soldati, del dialetto senza via d’uscita e degli anziani sulle piroghe, non ha nulla. Qui, a fare quella cosa, una sola, che della tradizione di Bagolino si porta le stigmate cinquecentesche (o forse precedenti…), c’è un allevatore-casaro che, nell’economia d’esperienza e nel tempo, ha riversato un sapere senza diramazioni, senza intuizioni commerciali. Qui si fa un formaggio (a latere di qualche ricotta e qualche fiurit) e lo si stagiona. Qui è la tradizione che impone e la contemporaneità che tenta. Nel rifiuto all’uniformità, all’appiattimento, al Bagoss con l’aggiunta di una ‘o’ o con la sottrazione di una ‘s’ (perchè commercianti e truffatori nella mimesi trovano l’essenza della ‘pop culture‘), c’è tutta la rivoluzione di un formaggio tanto blasonato quanto dimenticato.

Amerigo è l’ultimo tassello di una generazione di allevatori. Poco prima di metà giugno, con poca erba tra la strada e la malga, le sue vacche salgono verso il Passo Maniva e si fermano per circa tre mesi. Ogni anno e senza obblighi. Perchè disciplinari e presidi non vietano di produrre solo a fondo valle, con tutto quello che comporta in termini di facilità e sofisticazione. Perchè la differenza tra fieno e fiori è un retaggio di un palato che sente ormai solo le pratiche del fresco, dello stagionato e del colorato. E così lo zafferano più che nel gusto e nella stagionatura entra nelle gradazioni della pasta.

Il Bagoss è un formaggio che si evolve o si deprime nella e con la stagionatura. Sotto i diciotto mesi avrebbe poco senso, se non fosse che la richiesta maggiore arriva proprio per quello giovane. Pochi mesi, pasta morbida, masticabilità e sapori poco accentuati, così come le fragranze al naso, quelle che si aprono quando si entra nelle cantine di affinamento, con le muffe a coprire le date marchiate sullo scalzo. Quel profumo che non è lino e non è ammoniaca, che si allontana dall’affumicatura e dall’umidità. È semplicemente Bagoss. Inconfondibile, nella sua primigenia. La crosta rimane morbida, quasi edibile. Anche con la stagionatura, anche con il passaggio nell’olio di lino, anche con la salatura. Dove s’indurisce, il bagoss va perdere caratteristiche e gusti. Così cresce nel tempo, sul legno, senza proteolisi e senza mantecazioni. L’alimentazione dovrebbe essere tutto ed è tutto. Qui il fieno è ancora auto-prodotto: nella sua totalità. Qui si munge ancora a mano. Qui il Bagoss (alpeggio) di tre anni esprime quei finali legnosi della fiamma diretta, quei sapori tipici di vacca che più ci si avvicina all’unghia più aumentano, quel naso profumato, quasi indeterminato tra fragranze diverse che vanno dalla cipolla grigliata alle note verdi del pascolo fino alla castagna. Così l’alpeggio resta alpeggio, sia in bocca sia al naso e la stalla rimane stalla. Con i suoi retrogusti affienati e la sua diversità che non significa biasimo. Anzi… i sei anni di stalla sono un formaggio sorprendente, difficile, con alcuni difetti ma coi pregi della rarità.

Luciana, la moglie di Amerigo, è o sarebbe una straordinaria comunicazione. Oltre al focolare e alle due figlie educate alla modernità e al retaggio, molto lontane dal mondo caseario, ma molto vicine ad un’idea di famiglia imprescindibile alla necessità del produttore, racconta il Bagoss e racconta il marito meglio di qualunque assaggio o di qualunque intuizione. “Quelle rare volte che andiamo in vacanza. Magari al mare. Lui si sveglia comunque alle quattro e va al porto. A guardare, a chiedere. Vorrebbe salire sulle barche, tirare le reti. Non riesce a non fare…”. Se avessimo avuto la caparbietà di cercare un manifesto dell’artigianato, forse si sarebbe trovato in queste parole. Necessità e desiderio. Di fare e di tornare. Ma soprattutto di tenere il mito dell’esotico priorità di impiegati, manager e casuali erranti della professione. Qui c’è una casa blandita dall’estetica. Coi fiori, la pietra e le galline ovaiole. Qui pratica la professione di artigiano Amerigo Salvadori, un uomo con le parole direttamente proporzionali agli occhi, con la voglia di poter esprimere conoscenza in una realtà satura, che non ne vuole più, che si accontenta di nomi e definizioni. Amerigo nell’astrazione dal momento storico, è il manifesto del momento storico. La crisi, nel suo essere scelta, è necessità di mostrazione e cooperazione. L’autismo valligiano di nascondere saperi e mestieri è battuto dalla contraffazione, da quella comunicazione, senza radici, che si fonda sulla debolezza dell’Autentico. Così Amerigo apre e spiega. Il risultato è l’origine della diversità. Sua, di un formaggio e di una storia. Quella dei Bagossi.

 

AZIENDA AGRICOLA AMERIGO SALVADORI

VIA PONTE SELVA 14

BAGOLINO (BS)

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