Dai campi di grano alle tavole stellate… Andrea Cavalieri

Maglie. Entroterra salentino.

L’esserci è passato come un’assenza da motivazione… quasi una costrizione.

Ancorchè questo motivo sia stato preponderatamente presente, è stata comunque una grave dimenticanza, vittima di assoluta arrendevolezza…

Benedetto Cavalieri c’era, ma non c’è stato per me…

Il mio viaggio nella pasta è diventato tale a centinaia di kilometri dalla Puglia, senza sudore ma con un nodo alla gola.

Manco fossimo in un infinito piano sequenza, il Salento non ha altro da aggiungere al di là della sua immagine. Un movimento di macchina lento, con i colori di Ran e il passo retrogrado di Sokurov, rilascia le tinte del grano e il suo vento, gli ulivi, incoerenti e secolari, il succedersi dei muretti a secco che dividono, aiutano il riposo e amplificano i rumori cicaleggianti e i miraggi condivisi tra afa e asfalto. Pietra rosacea tendente al bianco, con infissi sgargianti, come eccezione di un centro storico oltre l’ideale barocco, sebbene spoglio, di quest’angolo di mondo.

Qui, gli echi del mare e delle spiagge sono lontani, si sente solo l’azzurro del cielo; il naso è totalmente invaso dalla pubblicità della Puglia, quella becera che mostra il bianco e quella subliminale che cuoce il pomodoro. Ecco lì il pastificio di Benedetto Cavalieri.

È stato reso celebre da film, da registi, da personaggi televisivi e da grandi chef. Aimo e Alajmo gli hanno dedicato piatti, i formati si sono moltiplicati molto oltre le fantasie. La genealogia è stato un passaggio continuo, senza sosta ed estremamente evocativo di un certo rapporto con il passato, con la devozione e con il rispetto, di Andrea e di Benedetti. Nasce Andrea (fondatore dell’azienda nel 1872, commerciante e imprenditore agricolo ma, se non mi son perso nella diegesi della nascita, mai pastaio), diventa Benedetto (colui che nel 1918 Fonda il Molino e Pastificio Benedetto Cavalieri), ritorna ad Andrea (manager più evoluto), ripassa all’odierno Benedetto che la sta traghettando nelle mani di Andrea, contemporaneo ed edulcorato “pastaio” meridionale, con quella cadenza nobiliarmente ripulita del rampollo di famiglia.

Andrea è molto raffinato, ascolta mentre parla e ascolta mentre parlano gli altri. Prende appunti soprattutto sulle critiche. Fa invecchiare alcuni tipi di paste per fare delle prove e, almeno a visione d’insieme, pare realmente interessato ad una miglioria di un prodotto che parte da una storia, da una poetica ma soprattutto da una mistica ormai quasi inscalfibile.

E il fatto che, il giorno successivo, la pasta non sappia più di grano, come qualche anno addietro, non turba i “gastroqualcosa” del cipollotto e peperoncino e della pasta che non scuoce (mirabile ai minuti più improbabili… grosso applauso), ma turba Andrea che prende nota e torna a fissarmi. Senza alcuna risposta o giustificazione, dimorando placidamente (forse paraculamente?) nella sua impasse signorile.

La pasta è un trattato di acume, bontà e ricerca: miscele di grani duri (per la maggior parte locali ma, per motivi che apparirebbero oscuri se non fossimo in Italia, con l’adiuvo di frumenti esteri, forse ungheresi o bielorussi), impasto a freddo, gramolatura, dal torchio alla trafila in bronzo (ogni pasta chiaramente la sua). In queste fasi, ma forse in tutte, la parola d’ordine è “delicatamente”. Essiccatura a bassa temperatura per un giorno-giorno e mezzo, per lasciare intatte qualità organolettiche, proteine e carboidrati. Riposo e confenzionamento. Et voilà, Peck che gli vuole cambiare il nome e impacchettarla a sua immagine, è stato rimbalzato più volte… basterebbe questo…

L’anima dell’immagine, quella che con la fragranza non va necessariamente a braccetto, si ritrova in un colore blu-violaceo riconoscibile a lidi di distanza, in formati che hanno nell’unicità la loro forza, ma soprattutto in quel nome e cognome, simulacro di un modo di fare artigianato così raro nel sud Italia.

Dagli spaghettoni, passando per i nuovi paccheri fino ai cappellini d’angelo, la pasta Cavalieri è già una ricetta.

Oltre, ci sono solo le mitologiche ruote pazze. 1938, o forse 1918, mito del futurismo applicato, la velocità e la tecnologia come fonte d’ispirazione e la firma artistica (quella che Marinetti non mise mai a completamento di un percorso pragmatico-maieutico) in una discrasia tra i piani d’opera, tra gli spessori delle parti e soprattutto tra la realtà e il mito. Una ruota che non può girare e che, al contatto coi denti, non trova la simultaneità dei vari elementi compositivi, che rimangono sfalsati in una lunghissima sensazione di coesione tra pasta e condimento. Capolavoro, forse l’unico, forse, insieme alla linea biologica da poco immessa sul mercato, l’unica eccezionalità che fuoriesca da un nome monolitico. Ma a volte non servono capogiri e reiterazioni…

Andrea e suo padre Benedetto (almeno credo…) hanno chiaro il presenzialismo, la cortesia, l’affabilità aristocratica e la capacità di rimanere artigiani in un mondo di corteggiatori… se poi ritrovassero quel profumo di grano…

 

PASTIFICIO BENEDETTO CAVALIERI

VIA GARIBALDI 64

MAGLIE (LE)

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