Dalle mani alla testa. Ecco la genialità… Riccardo Antoniolo

Bassano del Grappa. Ma il luogo potrebbe essere qualunque. O potrebbe anche non essere. Lui… si sarebbe comunque nascosto nella neve. Il personaggio criptato ha un nome e un cognome. Ma potrebbe anche non averli. Rimane sospeso, a mezz’aria. Come le parole che non usa per dare mostra di sé, preferendo il pensiero di un amico eretico che, partendo dai concetti, dalla storia e dalla Bibbia, ha vestito i panni di Galileo, tra l’eristica, la fede e la scienza… Riccardo è rimasto lì, senza intessere contesti e soprattutto senza maneggiare cellulari, iPad e pedine del suo ristorante-fucina. Con l’attenzione dell’interesse. Qualcosa che non l’ha solo rotto il ghiaccio ma l’ha frantumato, germogliando alla radice.
Ma Bassano non può essere bypassata. È un centro con un’anima, una storia e una profonda cultura della decadenza. I difetti e le imperfezioni non vengono nascosti, bensì mostrati. Il ponte, i palazzi, le chiese e la torre dell’orologio rimangono sonnecchianti, poco attraenti, con la suadenza della complessità. Il turista arriva, ma con moderazione. Gli accenti, in una torrida mattina di metà giugno, rasentano l’incomprensibilità. E non per  l’esotismo dell’ombrellino, dei volti cerati e dei calzini che dividono i peli biondi dai sandali Birkenstock, ma per la variante endemica del cappuccino festivo e della passeggiata verso il sagrato della chiesa. Un fiume, il Brenta. Un altipiano, il Grappa. Una storia di resistenze, morti, piene e patriottismo. Qualcosa che non puoi comprendere, che ti tiene lontano, almeno quanto l’idiosincrasia al brutto. I muri scrostati rispondono bene alla domanda sul fascino…
Ottocento Simply Food. Un nome complesso che si porta dietro un retaggio (quella di una vecchia brasserie di paese e di bevute) e un’apertura; una forma di avanguardia, un luogo gourmet, dove la sperimentazione non è texturas, mesi di riposo, arance all’anatra, spume di copertone o l’enunciazione del “formidabile”; un luogo gourmet, perchè una parola nuova sarebbe troppo innovativa, con le mani, la testa e il cuore al posto giusto e, soprattutto, nel tempo giusto. Quello che guarda al passato, fatto di manualità, quello che guarda al presente, impostosi attraverso la scientificità e quello che guarda al futuro, fatto semplicemente di fantasia.
Perchè al di là del contesto, al di là delle tabelle excel (che non collimano con la sua idiosincrasia al mondo 2.0), del metodo scientifico, della chimica e delle sovrastrutture comunicative per evitare di finire nel calderone di un Lorenzo Cogo qualunque, al di là di tutto questo, dicevo (o narravo…), Riccardo Antoniolo è uno straordinario sognatore. Uno che si perde per le vie del suo paese. Uno che non percepisce le distanze. Uno che non si ricorda se le scarpe hanno le stringhe o dei pezzi di scotch, a mo’ di pezza e mostrazione di povertà. Sì, perchè la sua storia è un principio di commozione. Poco comune e assolutamente coesa con l’anima della sua terra. Alla maniera dei Suicide… “Keep those dreams burnin’ forever”. Imperativo e speranza.
Riccardo Antoniolo è un lievitista, un pasticcere e un cuoco. La critica gastronomica  ha bisogno di definizioni, di discernere i ruoli e di occuparsi, con semplicità, delle note musicali. I suoni, la musica ancestrale, quella che genera fantasmi e crea paure, all’opposto, non le necessita. Ma l’uomo sì e anche di scacciare le paure. L’apotropaica si chiama nota, oppure critica, oppure nome. Questo facilita e questo condanna. Riccardo è stato condannato. E non dalla disattenzione e dalla sciatteria, ma dalla paura comunicativa. Può sempre rigettarti al tuo paese o celiare la supponenza, ma può anche condurti in viaggi e analisi sensoriali. Ma ci vuole attenzione, fatica e apertura. Mancano le foto, i convegni e le autocelebrazioni. Quindi non si può urlare “Piattoooo!” e nemmeno salutare lo chef… ma bisogna crederci e la critica ha una vistosa zoppia…
Levatomi il sassolino dalla scarpa, il mito di Sisifo mi scivola addosso, sento la strada più lieve. Riccardo è bello, ha qualcosa di Brad Pitt. Ha fatto atletica. È rimasto infatuato dagli scacchi. Ha praticato la boxe per questo. Pare si muovano sugli stessi principi intellettivi. Si è appassionato alla storia e alla mitologia. Ha una fame atavica di conoscenza. A nove anni ha messo tutto in un frullatore e ha creato un gelato inconsapevole. A quattordici, a scuola alberghiera appena iniziata, sfornava biscotti da vendere all’oratorio. A trenta faceva consulenza a grandi (o presunti tali…) maestri siciliani dell’arte dolciaria. Ora ne ha trentasei, e non m’imbarazza dirlo, è l’estrema propagine della pasticceria italiana. Quello che potrebbe scardinare tutto, se solo riuscisse a codificare. Non ha l’allure di Hammurabi, ha troppa fantasia e l’immagine è sempre foriera d’incostanza.
Ma quello che ho visto, quello che ho letto e quello che ho assaggiato, sono l’epitome del rivoluzionario.
Tre anni per trovare un impasto della pizza che lo soddisfacesse (dopo l’addio alla corte di Quaglia, che lo ha salutato – tanto lui quanto Ezio Marinato, sostanzialmente le pietre angolari su cui si è creata Petra – per l’avanzante nuovo, più sintomatico e maliardo, a breve dirà addio anche alle sue farine per un piccolo mulino della zona…). E anche il nome pizza è stato stravolto. Grande lievitato. Alla stregua del panettone. E il menù non mente. Il topping è secondario (ma i piselli di Borso strutturati e mantecati da lui in varie consistenze rimangono un paradigma utopistico di rara potenza…), fondamentali sono le consistenze. Oggettive come lo è solo il bisogno. La fragranza e la croccantezza, che lui ha studiato a fondo sia nelle lievitate che nelle frolle, sono una miscellanea di emulsioni. Grassi e acqua. Studiando le varie composizioni, le varie percentuali e i vari legami, ha ottenuto texture e strutture diverse. Ma fragranza, croccantezza e morbidezza (le caratteristiche che definiscono la sua pizza), appartengono all’oggetto e non al palato. Definiscono in quanto caratteristiche “sine qua non”. Dire della sua pizza è fragrante o della sua frolla è croccante è tautologico. È accidentale all’essenza. Non è un gusto o un giusto. É come dire la pizza è pizza o la frolla è frolla.

Ma bandando alle ciance, la sua pizza ha una sfogliatura incredibile. Grande struttura e consistenza. Derivazione della ricetta dalla “ciabatta” veneta. Quindi, alla base, l’arte bianca riporta la sua egemonia. Biga, quindi Saccharomyces cerevisiae in azione. Riposo e inoculo della madre. Fermentazione lattica e acetica sulla base di un lavoro già portato a termine da quella alcolica. Masticabile ma con la purezza del pane. Sigillata perfettamente e profumata. Una pizza di straordinaria complessità concettuale e di facilissima comprensione al gusto, al disgusto e alla nottata senza acqua e labbra secche…

Il panettone, nella mia testa e tra le mie fauci, è solo uno studio. Un’immagine da approfondire con la pratica. Lui, Marco Rinella (Cristalli di zucchero), Ezio Marinato e Giuliano Pediconi hanno fatto quattro giorni a contatto con la sperimentazione. Degli alchimisti vecchio stampo, con lieviti, temperature e cotture uguali, hanno analizzato quattro tipologie di emulsioni e di rapporti tra grassi, acqua e zuccheri. I risultati, che spero avranno, prima o poi, l’ausilio di una pubblicazione, hanno mostrato la caparbietà e la poesia che si può racchiudere all’interno della parola lievito. Acqua, legato, poolish o liquido si sono svuotati di significato, lasciando spazio ai fumi dell’intelletto e alla volontà di capire e confrontarsi.
Esperimento, invenzione e azzardo. Se l’artigiano contemporaneo avesse la possibilità di espressione, la sua cattedra sarebbe quella della sapienza. Sapido, sapore e sapere con la necessità di un risultato che, nello stesso tempo, corrobori un bisogno e realizzi un desiderio… Riccardo rappresenta questo mondo. Quello dello studio delle frolle.

Fantastiche fantasie declinate in versioni oleose, burrose, croccanti e contestuali ad albicocche e cioccolato (gli ingredienti che, in questo periodo, sono sotto la lente d’ingrandimento), sempre bilanciate (l’altra parola che genera immensità all’interno del processo scientifico). 

Quello della comunicazione dello stress. Quello dell’artigiano-imprenditore-cuoco-lievitista-pasticcere-gelatiere (un sorbetto di ciliegie da levarsi il cappello se avessi ancora una copertura di pudicizia…). Quello di una giornata a contatto col dialetto, con i formaggi e con gli alpeggi. Quello degli ordini e quello dei sorrisi. Quello che non demanda e che non regala. La conquista lo porterà prima o poi in altri lidi. E nell’inafferabilità di una definizione che lo possa banalizzare, mi accontenterò della nostalgia…

OTTOCENTO SIMPLY FOOD
CONTRA’ SAN GIORGIO, 2
BASSANO DEL GRAPPA (VI)

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