Freud e il “miglior distillatore del mondo”… Vittorio Gianni Capovilla

Rosà. Cuore del Veneto. Sia per densità di aziende, mobilifici, traffico e strade dritte, sia per quella rara apertura alla natura che solo da queste parti dipingono così bene… Filari e frutteti mi danno la direzione che, chiaramente, visto l’eretico che sto cercando, non è segnalata da alcun cartello. Stradina di campagna. Peri, meli, terra arata e mura di cinta a fortificare i segreti. L’orizzonte e la foschia contribuiscono a creare un clima valpadano, quasi quanto la terra brinata della mattina, marrone pallida come a dissuadere l’ospite…
Monsieur Capovilla è in mezzo ad alcuni bambini, un vecchio cliente e uno straniero errante. La pratica dell’appuntamento non lo disarma, anzi. Mi concede una vigorosa stretta di mano (che scambierei per cazzolunghismo, se non fossi al cospetto di un pezzo di storia dell’artigianato italiano…) che mette bene in chiaro vene e propositi. La bellicosità è un’istanza già esplorata e soddisfatta. La guerra, nelle parole e nei fatti, è un mezzo per mostrare sterilità. Per Vittorio Gianni Capovilla è un dato consumato da tempo. Andando da lui, non si può che apprestarsi ad accedere ad una ritualità, di gesti e anima, manierista e apparente, dove ogni cosa assume il carattere della necessità, dove ogni porta si apre nella stessa direzione e dove ogni barrique ha la stessa storia da raccontare. Si vagheggia la rapsodia ma si trova la ripetizione. È il fato deviato dall’uomo, la casualità causale e reiterata. L’inaspettato e lo stupito non sono di casa… Necessità ipotetica.
Il confronto diventa rimozione. Il suo essere istrionico, teatrale e perfettamente nella parte, è vorace, quasi avido. Il rapporto si consuma nell’impasse di una recita. Stessi posizionamenti, stessi mojiti rivisti, stessi assaggi e soprattutto stessi interlocutori. È attoriale, canuto e vissuto quanto basta, assolutamente preparato e affabulatore, con quel ruolo artigianale che si confà alla perfezione col palcoscenico. Percepisce l’altro – ma qui siamo sempre ad istinti e tentativi prettamente soggettivi – come pubblico, come platea e non come altro. In parole slegate, Francesca o Alfredo hanno gli stessi tratti, le stesse domande e la stessa storia da non narrare. Ma questa è un’ipotesi. L’altra potrebbe essere soggettiva, riguardare me, e un’empatia mancata. Ma la concordanza pare adeguarsi all’oggetto.
La passione ha delle tracce, si accende a lampi, è qualcosa che l’ha consumato fino al midollo, portandolo a creare un prodotto unico. Ora è come immunizzato alla quotidianità. Quella dello stupore e quella della casualità. Racconta, narra e fa assaggiare. Troppo. La meraviglia viene dilatata, sovrapposta e sovraesposta. Un gusto non ha il tempo di trovare un riscontro o uno sbalordimento. La frutta si sussegue, quasi in maniera ossessiva (ieratica e consumistica…?), doverosa, tra dita, palato e parole. Eppure quella ricerca, quegli straordinari distillati avrebbero bisogno di nascondimento ed elusione.
Tornando a più miti analisi. Distillatori in Italia ce ne sono pochi più di cento, ma ilKaiser tiene alla larga la domanda sulla stima. Muove il braccio come Celine e inizia a parlare della Germania e dell’Austria. Tutto è iniziato oltre trent’anni fa. Da meccanico, diventa tecnico per un’azienda di macchinari per enologia con particolare attenzione verso il mercato mitteleuropeo. Lì, la cultura per la distillazione è un dovere e una tradizione. Impero austro-ungarico (con la sua concessione di diritti e licenze), inverni lunghi e campi coltivati da sfruttare: miscellanea per un’idea. Da quella industriale a quella casalinga, la distillazione è una risorsa economica e una possibilità agricola.
Gianni Capovilla, alla stregua dei contrabbandieri, decide di portare un alambicco in Italia (diviso in pezzi e in viaggi), iniziando dalle vinacce e dalla grappa. La lucidità e il costante rapporto (brevi vacanze come dice lui…) con i distillatori austro-tedeschi lo porta all’infanzia. A quel distillato di frutta, retaggio e rivoluzione. Almeno per l’Italia dei gran bevitori e degli sciovinisti.

E allora si va di rarità, piccole produzioni, minuscole, oppure inesistenti (come quella della pera del miele… ne sono rimasti solo sei alberi, in Trentino, enormi, che ridanno frutti piccoli dall’incredibile aromaticità…): mele gravensteiner, cotogne e annurca, pere williams (l’abbondanza… soprattutto nell’assaggio neologico a tutto grado – 80% vol. – dove la pera esplode senza alcol, senza rilasci e con una pulizia mai sentita in precedenza…), moscatelli estivi, duroni di Marostica, ciliegie e prugne selvatiche, prugnolo gentile (eccezionale) , nespole, bacche di sambuco, albicocche pellecchielle del Vesuvio (uno degli apripista del Kaiser… pare che gli agricoltori napoletani vogliano essere pagati prima del raccolto per paura che le albicocche, rimanendo oltre maturazione sull’albero, non vengano più prese… tipica coltura in rarefazione capovilliana…), marasche, susine mirabelle (con quell’aroma di mandorla amara, data dal nocciolo presente in fermentazione), pesche saturno, ribes nero e rosso, lamponi selvatici (poco acidi ma con una fragranza unica), bananine dei Caraibi, mandarini (la nemesi dell’operaio pigro… sbucciarli è stata un’impresa da mai più ripetere) e corniole. Sicuramente non tutte, probabilmente il reale motivo che abbraccia l’infinita possibilità di futuro…

Gli assaggi sono qualcosa, anche nella ripetizione compulsiva, di unico: dito imbevuto nel contenitore in acciaio, sgocciolamento, bocca. Nella dovizia, rimangono alcune perle, alcune incomprensioni e soprattutto l’artigianalità dell’invecchiamento.
La costruzione dei suoi alambicchi è stata affidata a Muller, un artigiano della Foresta Nera. Lo stesso Capovilla ha creato un refrigeratore che (ancorchè coda e testa siano stati separati dal distillato) separa le sostanze volatili, come metanolo e acido cianidrico. Il suo è un distillato puro: frutta > zuccheri >  fermentazione > alcol > distillazione, nessuna aromatizzazione. Doppia distillazione, mai oltre i 102 gradi, a bagnomaria, in modo che lo spazio che si crea tra il calore e le vinacce eviti il surriscaldamento. Tre ore e mezza. E chiaramente, qui, il paragone con l’industria o con la concorrenza italica gli fa sbarrare gli occhi. Ma senza esposizione e senza citazione. La sobrietà è il vero segreto del primato.
Poi c’è il rhum agricolo, quello sviluppato con Velier e Dominique Thiery, sull’isola Marie Galante in Guadalupa, nato nel 2007 e prodotto direttamente in loco. Canna da zucchero (che tiene nel frigorifero-valigia dei trucchi da mostrare agli ignari astanti…), niente melassa, doppia distillazione e lunga fermentazione.

Rum bianco, fatto assaggiare nella consuetudine di una fettina di limone locale, e rum invecchiato (adesso sta facendo delle prove in barrique anche qui in Italia) con unbouquet aromatico straordinario. Qualcosa di leggendario.

Le botti, le grappe (da Gravner agli champagne biodinamici) e le possibilità sono infinite. Come quel distillato di birra (il whisky, a sentir lui, è estremamente semplice e si potrebbe tranquillamente produrre anche in Italia…) che del single malt ha l’impatto, ma che non tralascia la pulizia al palato…
Vittorio Gianni Capovilla si è creato un parco giochi dove è difficile non almanaccare la possibilità di quella vita… ma con una tristezza sottesa, ineffabile, profondamente difficile… Nell’immensa bontà del prodotto, l’agio è un racconto, non una condizione men che meno un lascito… ma la conquista è impossibile: corazza tedesca e garanzia austriaca… Ad maiora.

CAPOVILLA DISTILLATI
VIA GIARDINI, 12
ROSA’ (VI)

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