I polli e il loro menestrello… Alessandro Varesio

Montiglio Monferrato. Abbandono della pianura astigiana, oltre uno di quei rettifili tipici nella provincia settentrionale italiana. Quelli delle pompe di benzina, delle industrie e dei capannoni ormai svenduti a supermercati, outlet della ceramica e contrasti tra grigio topo e rosa sbiadito. Tigli, querce e noccioli si mostrano e nascondono. Ogni tanto qualche palizzata fa sorgere la domanda. E la risposta è tartufo bianco. Quello che Alba ruba per fare bella figura, lo stesso che costa oltre 200 euro l’etto, il medesimo che va all’asta per una grattuggiata di poesia su un piatto di una “semprescotta” o di una Barilla malcelata da Gragnano d’antan. I tartufai, più che una corporazione, da buoni veicolatori di immagini, sono per l’assenteismo compulsivo. Manco lo sniffo. 
– “Il cane ha preso uno spavento…sta invecchiando”
– “La luna è nella fase sbagliata, la stagione è troppo umida o troppo secca, di tartufi non se ne trovano proprio”.
Poi se il cofano della macchina ne ha dentro dieci kili è poco importante. L’interesse è rivolto verso la voracità del medio gourmet cittadino e verso il prezzo. Il resto è contrattazione afro-napoletana.
Alessandro Varesio vive in mezzo alla ricerca sfrenata del lusso, decidendo di fare un passo indietro. Ha deciso di essere un avicoltore indefesso e itinerante. Uno di quei commessi viaggiatori, anni ’50, con la valigia sempre pronta e la gentilezza della fede.
Alessandro mi apre le porte del suo mondo con naturalezza, strutturato dalla parte della scelta e della risposta sorta sempre in modo semplice. Abbandonata l’intensità della disattenzione, della batteria e del pascolo cementizio, ormai da dieci anni, ha deciso di dedicarsi al benessere, suo e dei suoi animali. L’allevamento è un inno alla forma. L’ordine regna sovrano all’interno dei recinti regalati a quei polli “collo nudo” che razzolano con l’eleganza del loro destino. Dai cento venti ai centottanta giorni d’ingrasso all’interno di curate capannine su sei ettari dedicati esclusivamente al pascolo. Altri 60 ettari sono preservati per la coltivazione dei cereali (principalmente granturco). Il resto dell’alimentazione è la soia (approvvigionata in Italia) e una semplice erba spontanea, rimasta nell’ombra di marciapiedi e cacche di cani ma fondamentale per l’apporto lipidico dell’animale: antiossidanti e vitamine ma soprattutto acidi grassi polinsaturi. Ecce la filiera. Un concentrato di recupero di tradizioni e di rottami. Qualcosa che fa mettere in tavola con la coscienza dell’assenza di spreco e in attesa dello stupore…
Pollo arrosto (con vino, spezie, aromi e olio) e pollo alla cacciatore. Monica, sua moglie (un’abiura da farmacista alle spalle e un padre allevatore di Piemontesi a corredare una vita in mezzo a sentori di sangue e di ossa…), ha l’incredibile perizia di curare un pranzo, credendo ancora nella possibilità della critica e della domanda. L’imposizione è solo un abito sociale da cui, naturalmente, si sveste.

La coscia è sapida, la carne si strappa dall’osso, non lasciando i tipici untumi. La massa grassa, l’acqua e la parte oleosa si concentrano in una carne di straordinaria facilità. Nella cacciatora, poco piccante, il petto regala un quarto d’infanzia e di quei sapori perduti e svalutati che, in maniera nebbiosa, attecchiscono il loro fascino sulla superficie gourmet del borghese cittadino. L’ala poi, anche nelle sperimentazioni casalinghe, rimane sempre la parte migliore del pollo. Di qualunque. Anche di questo. Unico appunto: il petto è controverso nelle differenti cotture. Dall’asciutto alla perfezione…

E così, chef e gastronomi hanno iniziato ad alzare la cresta e ad interessarsi. Le deprezzate carni bianche, per palestrati monocolore e silfidei chassy di modelline cecoslovacche, hanno iniziato ad avere dei nomi. Perchè metterci la faccia ha il colore rosso dell’impresa eroica… almeno in questo medioevo di paure ancestrali…
Il passo è quello di Alessandro Varesio, della firma sui suoi polli (ne alleva qualcuno anche dell’antica razza bionda di Villanova), sulle sue faraone e sui suoi capponi. Perchè esiste anche una forma d’amore legata al rispetto. E non è questione di allevatori, di agricoltori o di macellai, di rapporto diretto o indiretto con la terra o con la macchina e non è nemmeno questione di saper comunicare o di saper vendere, è questione di riconoscimento dell’altro in quanto altro e non in quanto discente. Nessun predellino e nessuna passione che dilania la parola, che fa rimanere corrucciati in mezzo ad una barba lunga e sfatta o nella ritrosia di una zappa e di una camicia di flanella. È tutta questione di semplicità e leggerezza, quelle che fanno raccontare ma senza narrazione, quelle che fanno mostrare ma senza dimostrazione, perchè questo agricoltore di provincia ha ancora la capacità di ospitare e di stupire, come un oste, meglio di un oste, come una guida turistica e un facilitatore di rapporti. Il riscontro è sempre dietro l’angolo, più per la paura di aver fatto un errore che per arrogante istrionismo…
La provincia astigiana l’ho battuta in caccia grossa perchè ogni angolo, scoperto da lui, aveva un angolo di cuscino che non aveva mai visto… in una dialettica dentro-fuori che nell’accrescimento altrui vede una possibilità e non una sapienza…

FATTORIA LA FORNACE
REGIONE REALE, 35
MONTECHIARO D’ASTI (AT)

VIA COCONITO, 52
MONTIGLIO MONFERRATO (AT)

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