Il casera e gli occhi aperti della Valtellina. Enrico Fattor

Bormio. Valtellina. Terme e sci.
Il resto è un disastro. L’alta valle gastronomicamente è inquietante. Zeppa di ombre triviali che richiamano il turista con modi antitetici e bellezze senza fiato.
Poi ci sono delle piccole nicchie, luoghi nascosti sotto la neve e sotto la più banale delle insegne. Niente fuori dal comune. Tutto già tracciato. Ma posti che quantomeno rilassano.
Max Tusetti, per esempio, è un bravo chef ma rimane inter-detto tra i produttori, i favori, le tradizioni e le abitudini. Né eclatante, né appariscente ma genuino e straordinariamente (al di là di un ordinario di musi ombrosi e lunghi, interiorizzati in un’atmosfera algida e raggelata) gentile. Si prende la briga di fissarmi due appuntamenti.
Il primo incontro sfiora il ridicolo, in bilico sul patetico. Lui è mister Boscacci, il proprietario dello storico Salumaio di Bormio. Di una timidezza fastidiosa, con sguardo che fissa il pavimento, voce flebile e vocabolario laconico. Gli chiedo di poter visitare le cantine… mi dice che non ce n’è bisogno. Iniziamo a parlare della bresaola. Sostiene, con naturalezza, che la carne che lui usa (che tutti usano) è di zebù brasiliano (solo punta d’anca) e si lamenta, per giunta, che stia per finire per colpa degli arabi… chissà, una volta terminata, cosa compreranno!!
Sono molto vicino all’incazzatura, quando mi comunica, con una scusa, che deve andare. Telefono a Max, gli dico che farebbe bene a cambiare fornitore. Lui, dopo averlo richiamato, mi dice che si è confuso e cose simili. Detto ciò, mi vergogno un po’ per lui, poi mi ricordo che la pietas non è di questo mondo, quindi me ne fotto e le palle smettono la centrifuga.
Il secondo incontro illumina la mia mattinata. Enrico Fattor. Un giovane optometrista, con l’orecchio aperto alla cultura e una passione viscerale per il cibo, svillupatasi nel corso di anni, frequentazioni e cene all’Osteria del Crotto.
Lui è l’immagine e la comunicazione della Latteria di Bormio. Ha ricavato un negozio da una chiesa sconsacrata, votandolo all’eccellenza. È il trait d’union tra i soci della cooperativa, che producono il formaggio, e il cliente. Lo affiancano un paio di ragazze al banco, appassionate e solerti, e vari scaffali di prelibatezze della valle ma non solo.
Quando il turista è facoltoso e disposto a spendere pur di apparire, portare avanti un progetto, mettendosi contro gli allevatori della zona che producono merda e caglio, mettendo il naso fuori e cercando il Bitto nelle Valli del Bitto o rischiando una multa di cinque mila euro a causa del Grana di Grosio, che manca delle certificazioni Cee, è estremamente complesso, perchè la qualità come la lettura è profonda e complessa.
La latteria sviluppa tre o quattro prodotti. Nella più rigorosa della tipicità. Con un’unica e fondante eccezione: il gusto.

– burro: affioramento o centrifugazione? In Italia lo valorizziamo con una parola ricca di fascino e lo svalorizziamo con una becera tecnica di produzione che, a causa della lentezza di separazione della crema di latte, inacidisce il prodotto e porta alla creazione di microrganismi indesiderati. Il nord Europa, dove attraverso la centrifuga si ha il passaggio latte-burro-formaggio, è lontano. Il burro d’alpeggio è molte volte qualcosa di leggendario… ma in questo caso, a cominciare dall’odore, c’è qualcosa che mi porta oltre. Supero l’idea di mucche marroni e viole in fiore e assaggio. Complesso, basico, paglierino e ricco di carotene. Il latte appena munto non si sente… fortunatamente… Il casera è un formaggio parzialmente scremato (probabilmente per l’importanza che l’intingolo burroso ha rivestito e riveste nella gastronomia valtellinese) che permette un burro con un sapore diffuso di caldo e fieno.

  – valtellina casera: è considerato il Bitto di fondo valle. Un formaggio, nella maggior parte dei casi, insozzato di pregiudizi e puzzolente di incapacità. Qui siamo di fronte ad un miracolo. Non di arte casearia, ma di pazienza. Due anni di stagionatura, la crosta viene lasciata fiorire, ammuffire e “autoacarofilizzarsi”, le occhiature assomigliano a quelle del Puzzone, piccole e frequenti. Odore di cantina, vicino al Bettelmatt, sapore che va dall’aleatorietà del piccante alla profondità del fiorito, che perdura a lungo nel retrogusto. Ottimo.

Poi c’è lo yogurt, il latte e la ricotta, ben delineati e senza particolari fronzoli.
Enrico ha l’umiltà di non ammettere mai i propri meriti. Preferisce stare un passo indietro alla spocchia valligiana che si mette sempre ben in mostra in volti abbronzati e vocalità stentoree. Ha dalla sua la capacità di valorizzare la tradizione e il territorio, senza dimenticare che la bellezza mostra la propria forza nell’apertura e non nella chiusura. E la parola cede sempre il passo al sapore.
I racconti, la mostrazione delle volte della vecchia chiesa, finanche i metodi di produzione, vengono sempre dopo l’assaggio.
Come quando i miei sensi, che avevano cristallizzato lo Scimudin in una formaggella priva di sapore, si scontrano con un piccolo Scimud dell’Azienda Agricola San Gottardo Valfurva. Madre e figlio, che andrò a trovare il prima possibile, producono qualcosa di strepitoso. Odore di latte persistente e profondo. Il sapore è un capogiro che ruota intorno ai fiori, al fieno, al latte e all’acido. Tutto bianco, stagionato due mesi, con una fine granulosità interna e una scioglievolezza da caprino (la vera origine dello Scimudin) che associa alla facilità della degustazione, la ripetitività…
Enrico si associa al mio stupore, con sorriso icastico e un’ospitalità familiare che cresce nella stima. Certo lui non produce ma la sua fierezza è data dall’esperienza e dalla conoscenza. Quella che lo fa essere un po’ mecenate, un po’ precettore e un po’ studente…

NEGOZIO DELLA LATTERIA DI BORMIO
VIA DE SIMONI, 22
BORMIO (SO)

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