Il grano saraceno e la Valtellina messa a nudo. Piero Roccatagliata e Gennara Arrondini

Teglio. Primo gennaio 2012. Piccola bottega di frutta e verdura.
Ci accoglie Gennara Arrondini, prontamente chiamata da Piero Roccatagliata, provvidamente contattato da me dieci minuti prima. Tira su la serranda del negozio e ci fa accomodare. Poggia sul bancone due kili di grano saraceno macinato da un piccolo mulino a pietra ancora presente nella sua abitazione. 
Sono rimasti in pochi. In tre per l’esattezza. Ormai i campi coltivati a saraceno si dipanano per nove ettari. Ecco quello che rimane dell’originario della Valtellina. Il resto viene dalla Germania, dall’Ungheria e dalla Cina (quest’anno il raccolto nel celeste impero è andato male. Le aziende cinesi sono venute a comprare in Europa per poi rivendere con un conseguenziale aumento del prezzo agli stessi europei…). Ma il raccolto può andare male spesso, perchè le condizioni climatiche sono oltresì fondamentali. Umidità, nebbia, vento e pioggia si devono alternare nella maniera giusta altrimenti si rischia che la percentuale di rendita si avvicini pericolosamente allo zero.

“A San Giacomo il grano deve essere nato o seminato”. Gennara aiuta la sua dialettica, attraverso detti e frasi popolari che restano vere soprattutto nello stupore che generano nello spettatore. Il 25 luglio è la data ultima in cui il grano deve essere piantato, dopo l’alternanza con la segale. La raccolta avviene tra fine settembre e le prime settimane di ottobre. La mietitura e la trebbiatura (che viene fatta sui pelorsc, teli di canapa e lino, dove il battitore inizia a colpire le piante per separare la paglia dai semi) sono molto complesse, possono coinvolgere anche dieci persone. La macinazione non avviene tutta in una volta, ma solo al momento dell’utilizzo. La farina che se ne ricava è un’integrale di color beige con lievi venature marroni e ha un odore e un sapore molto tenui, privi di note estranee.

Nel mentre, arriva Piero. Milanese di origine valtellinese, trasferitosi a vivere tra Teglio e Sondrio con attività ulteriore in Brianza dove ha aperto una posteria che diventerà a breve un’osteria ed ha iniziato a coltivare grano saraceno brianzolo, dissimile da quello valtellinese, ma solo per un palato molto esperto. La differenza, a parole sue, “la può notare solo un anziano di Teglio”.
Cultura gastronomica quasi sconfinata, disserta amabilmente, tecnicamente, finanche passionalmente. In maniera precisa, tranchant e impercettibilmente timida ci apre un mondo di invidie, dissidi, tradizioni e storie. La Valtellina viene spogliata da una patina di focolai accesi e cooperazione agricola, scartavetrata e rivestita di un grande passato, di un inquieto presente e di un possibile futuro. Partiamo.

– Grano saraceno: è un nome contradditorio. In primo luogo non è un grano ma una poligonacea con capacità nutrizionali simili a quelle dei cereali e una bellissima fioritura bianca. In secondo luogo la provenienza non è né nordafricana, né turca e nemmeno islamica, ma probabilmente le sue radici sono nell’estremo oriente. In Russia e nei paesi slavi, viene chiamato grano greco, sicuramente per il passaggio che i viaggiatori, nel corso dei secoli, facevano, arrivando da est.

Due ristoranti nella zona di Teglio e altrettanti (forse qualcuno in più) nell’intera valle utilizzano il grano saraceno valtellinese. Il resto dei ristoratori accampa scuse sul costo (otto euro al kilo contro i 2,5 euro di quello cinese), asserendo di non potere alzare i prezzi (si tratterebbe di meno di un euro a piatto) nel rispetto del cliente (lo stesso convinto di mangiare ottimi pizzoccheri valtellinesi!!).

– Pizzoccheri: c’è una diatriba in corso (pare sia in fase di arrivo) tra il pastificio Annoni di Fara Gera d’Adda, provincia di Bergamo, il ministero, il consorzio e il pastificio Moro di Chiavenna. Tutto, per il riconoscimento di un’indicazione geografica protetta che possa avere il fiume Adda come trait d’union. Ma il pizzocchero non ha un brevetto, è una pasta fresca le cui origini si perdono nella notte dei tempi… è la tradizione del venerdì di magro. Oggi è industrialmente divenuta una pasta secca, imbustata e con una percentuale di grano saraceno non superiore al 10%.

L’unica salvezza sono quei pochi chef o panificatori (da Vittorio Fusari a Davide Longoni, da Aimo Moroni a Maurizio Vaninetti dell’Osteria del Crotto fino a Stefano Masanti) che resistono ai prezzi, alle tentazioni e alla commercializzazione, cercando (a volte senza trovare…) i cereali a Teglio, dalla segale al saraceno, e realizzando un prodotto che ha il sapore del rispetto, l’odore degli steli sfiorati in una giornata ventosa e la sincerità verso un mondo che potrebbe non essere più…

– Mele della Valtellina. Scena ridicola: Famosa Azienda Agricola del territorio. Membro di famiglia che, al nome di Amedeo Moretti, inizia uno sputtanamento assolutamente gratuito sulla falsa riga di: “una mia cliente è andata a chiedere la certificazione biologica che non gli è stata data e ha trovato più mele marce che altro”. Io prendo l’informazione e la giro a Piero. “Ti do il numero di Amedeo, vallo a trovare. E’ un ex bancario in pensione, sai cosa gliene può fregare dei guadagni dalle mele. Io sono andato a vedere i campi per vedere i prodotti che utilizzano e ancora oggi mi chiedo chi gli abbia concesso la certificazione biologica…”.
Si gira, alza le spalle e guarda da un’altra parte. Io le mele di Amedeo Moretti le ho solo sfiorate ma è bastato un soffio…

– Bresaola: qui il ridicolo sfiora il patetico. Rigamonti ha mollato tutto a Jbs, colosso brasiliano dell’alimentazione che utilizza carne di zebù, allevati in Argentina e in Brasile,  compressa e surgelata. Il prodotto finale è la Bresaola Rigamonti, non più della Valtellina, di carne di bovino (non più di manzo). Il perchè, oltre ai costi, è da ricercare nei desiderata del consumatore medio italiano che vuole carne magra, poco marmorizzata e con poco grasso. Del Curto, Masanti e Roccatagliata hanno abbassato lo sguardo alla ricerca di una speranza, ma credo che, fino ad ora almeno, non hanno trovato altro che merda di zebù…

– Formaggio: sottovoce mi dice queste parole “tra pochi mesi scoppierà un casino micidiale e il pomo della discordia è il bitto”. Pare che le latterie sociali (i cattivi) obblighino i piccoli produttori a fare il formaggio che loro desiderano al prezzo che loro impongono… e pare che qualcuno abbia iniziato a stufarsi (oltre gli undici, o dodici, o quindici apostoli del bitto storico, sfuggiti dal magma reazionario dei prezzi e delle imposizioni)…

Piero mi stringe con cortesia la mano, mentre Gennara mi ha abbandonato a causa di una conversazione serrata in dialetto con un’amica, e mi lascia con quel sovoir faire di matrice lontana, poco valligiano e molto inglese, che nel sarcasmo trova sempre più verità che nella lotta e che ha trovato la serenità, non davanti ad un camino conviviale e paesano con una polenta da condividere, ma nello sfrondamento dell’albero della vergogna…

GENNARA ARRONDINI
VIA FRATELLI LAZZARONI, 15
TEGLIO (SO)

IL CEMBRO DI PIERO ROCCATAGLIATA
VIA POZZI, 18
TEGLIO (SO)

Teglio. Primo gennaio 2011. Piccola bottega di frutta e verdura.
Ci accoglie Gennara Arrondini, prontamente chiamata da Piero Roccatagliata, provvidamente contattato da me dieci minuti prima. Tira su la serranda del negozio e ci fa accomodare. Poggia sul bancone due kili di grano saraceno macinato da un piccolo mulino a pietra ancora presente nella sua abitazione.
Sono rimasti in pochi. In tre per l’esattezza. Ormai i campi coltivati a saraceno si dipanano per nove ettari. Ecco quello che rimane dell’originario della Valtellina. Il resto viene dalla Germania, dall’Ungheria e dalla Cina (quest’anno il raccolto nel celeste impero è andato male. Le aziende cinesi sono venute a comprare in Europa per poi rivendere con un conseguenziale aumento del prezzo agli stessi europei…). Ma il raccolto può andare male spesso, perchè le condizioni climatiche sono oltresì fondamentali. Umidità, nebbia, vento e pioggia si devono alternare nella maniera giusta altrimenti si rischia che la percentuale di rendita si avvicini pericolosamente allo zero.

 “A San Giacomo il grano deve essere nato o seminato”. Gennara aiuta la sua dialettica, attraverso detti e frasi popolari che restano vere soprattutto nello stupore che generano nello spettatore. Il 25 luglio è la data ultima in cui il grano deve essere piantato, dopo l’alternanza con la segale. La raccolta avviene tra fine settembre e le prime settimane di ottobre. La mietitura e la trebbiatura (che viene fatta sui pelorsc, teli di canapa e lino, dove il battitore inizia a colpire le piante per separare la paglia dai semi) sono molto complesse, possono coinvolgere anche dieci persone. La macinazione non avviene tutta in una volta, ma solo al momento dell’utilizzo. La farina che se ne ricava è un’integrale di color beige con lievi venature marroni e ha un odore e un sapore molto tenui, privi di note estranee.

Nel mentre, arriva Piero. Milanese di origine valtellinese, trasferitosi a vivere tra Teglio e Sondrio con attività ulteriore in Brianza dove ha aperto una posteria che diventerà a breve un’osteria ed ha iniziato a coltivare grano saraceno brianzolo, dissimile da quello valtellinese, ma solo per un palato molto esperto. La differenza, a parole sue, “la può notare solo un anziano di Teglio”.
Cultura gastronomica quasi sconfinata, disserta amabilmente, tecnicamente, finanche passionalmente. In maniera precisa, tranchant e impercettibilmente timida ci apre un mondo di invidie, dissidi, tradizioni e storie. La Valtellina viene spogliata da una patina di focolai accesi e cooperazione agricola, scartavetrata e rivestita di un grande passato, di un inquieto presente e di un possibile futuro. Partiamo.

– Grano saraceno: è un nome contradditorio. In primo luogo non è un grano ma una poligonacea con capacità nutrizionali simili a quelle dei cereali e una bellissima fioritura bianca. In secondo luogo la provenienza non è né nordafricana, né turca e nemmeno islamica, ma probabilmente le sue radici sono nell’estremo oriente. In Russia e nei paesi slavi, viene chiamato grano greco, sicuramente per il passaggio che i viaggiatori, nel corso dei secoli, facevano, arrivando da est. 

Due ristoranti nella zona di Teglio e altrettanti (forse qualcuno in più) nell’intera valle utilizzano il grano saraceno valtellinese. Il resto dei ristoratori accampa scuse sul costo (otto euro al kilo contro i 2,5 euro di quello cinese), asserendo di non potere alzare i prezzi (si tratterebbe di meno di un euro a piatto) nel rispetto del cliente (lo stesso convinto di mangiare ottimi pizzoccheri valtellinesi!!).

– Pizzoccheri: c’è una diatriba in corso (pare sia in fase di arrivo) tra il pastificio Annoni di Fara Gera d’Adda, provincia di Bergamo, il ministero, il consorzio e il pastificio Moro di Chiavenna. Tutto, per il riconoscimento di un’indicazione geografica protetta che possa avere il fiume Adda come trait d’union. Ma il pizzocchero non ha un brevetto, è una pasta fresca le cui origini si perdono nella notte dei tempi… è la tradizione del venerdì di magro. Oggi è industrialmente divenuta una pasta secca, imbustata e con una percentuale di grano saraceno non superiore al 10%.

L’unica salvezza sono quei pochi chef o panificatori (da Vittorio Fusari a Davide Longoni, da Aimo Moroni a Maurizio Vaninetti dell’Osteria del Crotto fino a Stefano Masanti) che resistono ai prezzi, alle tentazioni e alla commercializzazione, cercando (a volte senza trovare…) i cereali a Teglio, dalla segale al saraceno, e realizzando un prodotto che ha il sapore del rispetto, l’odore degli steli sfiorati in una giornata ventosa e la sincerità verso un mondo che potrebbe non essere più…

– Mele della Valtellina. Scena ridicola: Famosa Azienda Agricola del territorio. Membro di famiglia che, al nome di Amedeo Moretti, inizia uno sputtanamento assolutamente gratuito sulla falsa riga di: “una mia cliente è andata a chiedere la certificazione biologica che non gli è stata data e ha trovato più mele marce che altro”. Io prendo l’informazione e la giro a Piero. “Ti do il numero di Amedeo, vallo a trovare. E’ un ex bancario in pensione, sai cosa gliene può fregare dei guadagni dalle mele. Io sono andato a vedere i campi per vedere i prodotti che utilizzano e ancora oggi mi chiedo chi gli abbia concesso la certificazione biologica…”.
Si gira, alza le spalle e guarda da un’altra parte. Io le mele di Amedeo Moretti le ho solo sfiorate ma è bastato un soffio…

– Bresaola: qui il ridicolo sfiora il patetico. Rigamonti ha mollato tutto a Jbs, colosso brasiliano dell’alimentazione che utilizza carne di zebù, allevati in Argentina e in Brasile,  compressa e surgelata. Il prodotto finale è la Bresaola Rigamonti, non più della Valtellina, di carne di bovino (non più di manzo). Il perchè, oltre ai costi, è da ricercare nei desiderata del consumatore medio italiano che vuole carne magra, poco marmorizzata e con poco grasso. Del Curto, Masanti e Roccatagliata hanno abbassato lo sguardo alla ricerca di una speranza, ma credo che, fino ad ora almeno, non hanno trovato altro che merda di zebù…

– Formaggio: sottovoce mi dice queste parole “tra pochi mesi scoppierà un casino micidiale e il pomo della discordia è il bitto”. Pare che le latterie sociali (i cattivi) obblighino i piccoli produttori a fare il formaggio che loro desiderano al prezzo che loro impongono… e pare che qualcuno abbia iniziato a stufarsi (oltre gli undici, o dodici, o quindici apostoli del bitto storico, sfuggiti dal magma reazionario dei prezzi e delle imposizioni)…

Piero mi stringe con cortesia la mano, mentre Gennara mi ha abbandonato a causa di una conversazione serrata in dialetto con un’amica, e mi lascia con quel sovoir faire di matrice lontana, poco valligiano e molto inglese, che nel sarcasmo trova sempre più verità che nella lotta e che ha trovato la serenità, non davanti ad un camino conviviale e paesano con una polenta da condividere, ma nello sfrondamento dell’albero della vergogna…

GENNARA ARRONDINI
VIA FRATELLI LAZZARONI, 15
TEGLIO (SO)

IL CEMBRO DI PIERO ROCCATAGLIATA
VIA POZZI, 18
TEGLIO (SO)

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