Il pizzaiolo uscito da un album dei Wilco… Marco Locatelli

Vimercate. Il centro è anche carino. Un ponte, una porta, delle mura, qualche palazzo, ciottolati dove passeggiare e un clima prettamente invernale. Al di fuori, tangenziale, il miracolo delle Torri Bianche e le solite costruzioni da hinterland raffreddano gli animi di chi legge “Vimercate” sulle cartine, sul web o nelle cronache. Qui la Brianza lecchese è ad un passo, con le sue colline e i suoi sentori di lago. Ma niente di tutto questo attira la mia curiosità.

Un centro commerciale, prefabbricato, case-popolari style, con quel grigio illuminato dallo smog e da un arcobaleno “alla maniera del Mago G”, fine anni ’80, con quell’impressionismo della novità, durato un paio d’anni e svanito con l’avvento fobico dei telefonini, dei negozi a corredare e delle iper-strutture che manco Calatrava.

Il centro commerciale “Mega” sta al compratore come Mariangela Fantozzi al seduttore. E il capufficio Pacchi non è sempre in zona. Mi tappo il naso in attesa che, magari, qualche risposta possa pacificare il mio nonsense. Nulla. C’è troppa razionalità anche dall’altro lato.

È stata l’occasione di un inizio. Tavolini “coca-cola”, apparenza egiziana e pizza d’asporto. Se avesse una faccia, avrebbe quella che ha. Ed è la cosa più terrificante… Supero l’estraniamento e varco la porta…

Marco Locatelli sembra arrivato da quella provincia americana senza carta identità, uscito da una realizzazione folk-rock, in cui la banalità del male diventa la banalità del quotidiano. Quelle strade inquiete e oscure dove le radici diventano problemi, alcol e vicini di casa. Vimercate sembra uscita dal Nebraska dei Lullaby for a Working Class, dal Colorado dei 16 Horsepower o dall’Ohio dei Wilco, ha quella destrutturazione provinciale che ha fatto di Marco l’alfiere della diversità. Le stranianti, quanto ammorbanti, storie dei songwriter di strada diventano una pizza, i suoi impasti e i suoi condimenti. Al posto del gruppo e del garage, qua c’è un forno e un mondo a cui guardare con stupore. Il Paradiso della Pizza è quella roadhouse tra Omaha e Fremont dove i camion carichi di legname, i juke box, le cameriere senza un futuro e le storie di ordinaria follia, si trasformano in un frigorifero, in un bancone, in piatti di carta e in cartoni porta pizza. Qui si narra e si continuerà a farlo perchè non c’è la fretta della vendita e nemmeno quella dell’impressione.

Marco impasta in mezzo alla gentilezza. Giulia, la sua fidanzata, è il carattere e il lavoro. Quella che non capisco, pur avendoci provato. M’incute deferenza e caparbietà. La sveglia mattutina del sognatore. Poesia spicciola, forse a braccio, per circoscrivere due diversità. Tant’è.

La pizza dovrebbe essere la mia attenzione, ma l’occhio non può fare a meno di posarsi. Manco fossi un idolatra. Comunque, in qualche maniera ci arrivo. La discussione su impasti e topping è vasta. Lasciata la sicurezza delle alici del mar di Cantabrico, del foie gras e della cinta di Parisi, ha deciso d’imbarcarsi su un Lambro denso di fumisterie e nomi di produttori: dal Falaschi a Morris Micheli, da Del Curto a Salvestroni.

Le farine arrivano da Renzo Sobrino e da Mulino Marino (quel po’ di Bruno De Rosa e di Gabriele Bonci che non riesce a togliersi di dosso… e magari non ci prova nemmeno…) e vanno a comporre il blend dell’impasto base: tipo zero, tipo due e una semola di grano duro (mi pare Senatore Cappelli). La maturazione è tripartita e molto lunga (48 ore). La pasta acida va affinata, sia nella conservazione, che negli aromi, che nei rinfreschi. Per abbassare l’acidità, Marco ha deciso il monococco come farina rinfrescante. Follia economica e concettuale. Il portavivande (schiscetta…) ha lasciato spazio al canovaccio, ma la legatura è da affinare necessariamente.

Tolte queste difficoltà, gli impasti sono molto interessanti: dal classico all’integrale fino alle trebbie della birra (scarti nobili che rilasciano un sapore tostato e avvolgente). Il rapporto tra masticabilità e sale adesso è perfetto, gli ingredienti, a volte, non sono accoppiati benissimo (il lavoro da chef è ancora agli inizi) e l’olio tende a emulsionare un po’ troppo il tutto. Andrebbe cercata un filo più di separazione e un’idea di origine e di appartenenza a cui richiamare le varie materie prime. Digeribilità buona, ma potrebbe essere molto migliore, elasticità e morbidezza ottime. Qui siamo vicini al paradigma.

Gli ingredienti cambiano, si alternano, così come gli impasti, a volte si sposano meglio, a volte abbisognano di tempo e comprensione, ma nella banalità del rilancio della pizza a lievitazione naturale, è abbastanza. Quello che avanza, ed è un bel avanzare, è una testa sempre sul punto di innovare e di intraprendere e un volto che rapisce nella facilità di espressione e di ascolto, uno di quelli da bevuta finale e da fiducia immediata, uno di quelli da landa desolata, divisione del giardino e vicinato sempre più vicino…

Non manca moltissimo al tesoro…

 

RICE LIVE BISTROT

VIA MANIN 2

VIMERCATE (MB)

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