Il prosciutto che sa di ciliegio. Lorenzo D’Osvaldo

Cormons. Collio Goriziano. Tenuta D’Osvaldo. Ci accoglie Monica, la figlia. Erede di una tradizione e di una passione che perdurano dagli anni ’40. Le ha condotte entrambe verso una comunicazione serrata, preparata, colta, su un substrato di conoscenze, segreti, successi e ironia. Una bellezza che, ogni giorno, viene realizzata dal gusto degli altri, quello che fa strabuzzare gli occhi e confondere gli odori.
Ci porta in uno di quei luoghi che hanno fatto la leggenda di questa famiglia.
Una di quelle stanze areate (con le finestre aperte durante la notte e chiuse durante il giorno, per rispettare temperature e umidità…) dove i prosciutti vengono portati per la stagionatura. Questo rapporto con l’aria “di campagna” (uno dei motivi di attrito con la Comunità Europea, così ligia all’HACCP e al controllo della contaminazione alimentare) consente alla coscia di ricoprirsi di una leggera muffa, permettendole di mantenere all’interno e di stabilizzare tutti quegli aromi e quei profumi che il mito della standardizzazione sta cercando di portare via e di uniformare.
Il climax finale, dove la lavatura, l’asciugatura e la sugnatura con grasso e spezie, si alternano per altri quindici giorni, consegna al mondo un prodotto (con almeno quattordici mesi di stagionatura), unico, irripetibile e fiabesco.
Il perchè e tutto quello che riguarda la storia, la tradizione e il rapporto viscerale con il proprio lavoro vengono lasciati alle parole di Lorenzo D’Osvaldo, un signore cortese e pugnace, dagli ispettorali baffi francesi e dalla cadenza sanguigna di un Artigiano che è riuscito nell’impresa di dare il proprio nome ad un prosciutto.
Ci mostra con orgoglio le foto di famiglia e le foto del camino. Ruota tutto intorno a questo. Qualunque passaggio, qualunque rito e qualunque leggenda si sono sviluppate intorno al focolare, sono arrivate lontane, in diverse parti del mondo, a casa di personaggi famosi, di salumieri, gastronomi, intenditori e semplici appassionati.
“Non sopporto la puzza di porcile dei prosciutti”. Questa è stata l’intuizione geniale che, al di là della tradizione paterna, più ligia ad una semplice ma marcata affumicatura  per un mantenimento migliore della carne in un periodo dove la conservazione rappresentava un miraggio, ha permesso a Lorenzo di arrivare all’apice della norcineria mondiale.
Nessun allevamento (i maiali di razza Duroc provengono da quattro contadini  – allevatori occasionali – friulani e vengono controllati con certosina attenzione) e nessuna macellazione, il lavoro dei D’Osvaldo si è concentrato, nel corso degli anni, esclusivamente sulla lavorazione delle carni… e sull’anima della genialità applicata: l’affumicatura.
Lorenzo ci conduce nella stanza segreta (ormai in disuso, almeno per fini commerciali…), vietata, lasciva, immorale e libertina.
Nove metri quadri di poesia, tradizione e mito. Un focolare al centro, dove un grande fuoco brucia legni di ciliegio e foglie d’alloro, il tutto armonizzato dai profumi della citronella, del finocchietto selvatico e del sambuco. I prosciutti appesi a tre metri di altezza e protetti da grate. Una pentola di rame, piena di acqua, da dove si sprigionano, grazie alle temperature a cui brucia il legno di ciliegio e grazie alla sua affumicatura fredda, aromi delicati e persistenti di bosco, pioggia, fumo, silenzi, nebbie, erbe di campo, terra macerata e incanto.
Una volta usciti, mi mostra le sue viti e i suoi boschi ed inizia a parlarmi di qualcosa che non capisco da subito… (lo interrompo e gli faccio notare che il suo prosciutto è probabilmente l’unico in Italia a mantenere nella denominazione, a scapito della zona di produzione o della razza allevata, il cognome della famiglia. Con un sorriso mi dice ma il mio è “il prosciutto di Cormons”… ma alza lo sguardo e non ci crede nemmeno lui…)
… cinta senese. La nomina un paio di volte. Poi mi racconta di come ne avesse acquistate alcune decine e le avesse fatte scorrazzare in un pezzo di bosco immerso nel Friuli più arcaico e profondo, dei danni che avessero fatto e dello stato brado che avessero raggiunto. Poi si blocca, in questo corroborato da Monica, e mi dice “Dai entriamo che te lo faccio assaggiare”:

– Prosciutto di cinta senese leggermente affumicato: strato di grassi polinsaturi spesso due centimetri tutt’intorno alla fetta, elastico e morbido allo stesso tempo, odore assolutamente poco marcato, impatto al palato suadente ma giovane… da lì il viaggio nel fascino, nel tempo, nel gusto e nella cultura hanno il volto affumicato e profondo di qualcosa di difficile da descrivere. Io lo definirei così: retrogusto di qualcosa che non c’è mai stato e non ci sarà mai più… stratosferico, unico e impossibile.

– Prosciutto D’Osvaldo affumicato: l’epitome dei prosciutti italiani. Odori leggeri ma persistenti di ciliegio, fumo e ricordi di Norvegia, rilascia sfumature straordinarie, al palato ha un impatto di decisa salatura stemperata alla perfezione dalla dolcezza della carne. Superiore.

  – Prosciutto dolce D’Osvaldo: quello che dovrebbe essere il suo prodotto più scontato, la normalità della terra, la tracciabilità del prodotto, l’ottima provenienza delle carne, ma senza quel marchio di fabbrica così rivoluzionario. Invece… è la carne nella sua essenza più vivida e icastica, qualcosa di già conosciuto ma con la grazia di quella che  Kerouac avrebbe definito “poesia quotidiana su scatola di fagioli”.

Prima di andarmene, Lorenzo mi regala un aceto di vino bianco prodotto da loro e mi mostra la sua villa, trasformata dalla passione in un prosciuttificio abitabile.
La famiglia D’Osvaldo è il racconto di una giornata dove fascino e concretezza hanno lasciato spazio ai loro sguardi e alla storia di un’Italia che continua a raccontare e a scrivere l’epitaffio della propria gloria…

PROSCIUTTIFICIO D’OSVALDO
VIA DANTE, 40
CORMONS (GO)

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