La carne nelle sue declinazioni… Carlo Salvestroni

Roccatederighi. Una delle tante frazioni di Roccastrada. Curve, tante, per arrivare. Immersione totale all’interno di boschi di castagno dove la luce penetra attraverso fessure di foglie, giochi di ombre e riflessioni contadine. Quelle che non puoi fare a meno di portarti dietro, almanaccando posti e guardando volti. Gli stessi dei vecchi del paese, appostati con sedie di vimini al di fuori delle proprie abitazioni, che ti guardano, coniugano la domanda al tempo passato, assorti in qualcosa che ha bisogno di silenzio, e poi rispondono, come se avessero già risposto a quella domanda migliaia di volte ma come se fosse caduta, ex abrupto, da una memoria impolverata. La sedia di vimini si anima, i coetanei fanno capannello intorno, indicando ognuno la propria direzione che, chiaramente, in un borgo come Roccatederighi, con quel fascino charmant e decadente che solo la pietra riesce ancora a vestire attillato, assomiglia sempra alla stessa, con i punti di riferimento spostati, deviati e divelti dalle abitudini, dalle passeggiate domenicali, dalla posizione del sagrato e dallo sguardo che spazia. Via Roma è quella centrale, quella che taglia. Lì, dietro tendine antimosche, così demodè, si nasconde, invisa agli occhi della toscanità più becera, quella degli olii, delle Wine Farm, quella del pecorino toscano dop e della cinta cinese (cit.), la Macelleria di Carlo Salvestroni. Eclettico, sanguigno, familiare, lontano dall’univocità, pescatore, cacciatore, norcino e macellaio, che fa di questo borgo la propria egida, inserendosi licenziosamente nella poesia.

Carlo ama il bello, nelle sue forme più selvatiche, non ha paura delle lodi e nemmeno della vanità. Ha l’espressione della fiducia che seguiresti fino al termine della notte. Apre e chiude. Lo sa e lo fa bene.

Rubizzo, non aspetta nemmeno che tu possa incensarlo, resta lì con la sua ironia e trancia immediatamente qualunque incomprensione possa essere generata dal dialogo. Il lampo squarcia il cielo sulla caccia ai caprioli. Ce ne sono troppi per un ecosistema stabile. La provincia (o la regione… non ricordo) chiede il controllo del numero, direttamente ad alcuni cacciatori. Lui svia, prende in mano il coltello e tra le dita i suoi strali: “Io mi sostituisco ai lupi”. Soddisfazione e giro di valzer. In questo s’anima la personalità di Carlo, uomo a cui affidarsi, centocinquanta albe l’anno in mezzo ai boschi, lo stesso che attende il cliente, lo soddisfa, lo intrattiene e ne fa una preda inconsapevole. Con quella sicurezza di avere sempre il coltello dalla parte della fiducia e i bracconieri da quella del tradimento. Se mentisse sarebbe fritto. Ma il suo compito è vendere e l’arte della sincerità l’ha trasformata in un gioco. Dove ci sono antagonisti e deuteragonisti e dove non può mai mancare il simulacro della meta: la sua carne, quella che è molto oltre i suoi racconti e i suoi viaggi, quella che non incanta ma dà certezze. Come quel cinghiale macerato e stufato… che più s’avvicinano i denti all’osso e più s’assopisce la razionalità e s’esprimono i sensi, in smorfie facciali di meraviglia e selvaticità. O come il suo filetto, dove insilati e ormoni sono stati vinti e dove il peso è ad un passo da aumentare in cottura… riesce a convincermi che può essere, comunque, un taglio senza i fronzoli della moda, della danza dello chef a tavola e dei menù che sbavano su centimetri di ciccia e ignoranza. Veramente frugale… quasi povero….

Caccia, pesca, albe, macellazione, norcineria, famiglia. Sua moglie e sua figlia lo completano: una con il sarcasmo, l’altra con un ribellismo rispettoso. Gli allevamenti sono certificati dalla parentela o da un rapporto di fiducia reciproca. Il dogmatismo della selezione della razza non è qualcosa che lo accompagna. Rimane tutto nell’alimentazione. Maremmane, cinte senesi, macchiaioli o chianine, ancorchè le abbia avute per le mani e macellate, rimangono dei contenitori vuoti di senso. Giusto o sbagliato che sia. Etico o non etico. Le frollature sono delle modalità e non una mostrazione di bravura. Quindici giorni. Vitello (niente vitelloni, manzette o scottone). Nessun adiuvo di nitrati e nitriti. Minimi concentrati di salnitro solo per qualche salume e solo in determinate stagioni. La concia toscana è così speziata e pepata da non abbisognare che di se stessa. La sua fama è a metà strada tra la trippa (lavorata con limone e olio di straordinaria fragranza e morbidezza) e la spalla cruda. Qui ci blocchiamo, sia io sia Carlo: la pepatura non mi fa capire fino in fondo. Incomprensione. Carlo la toglie e mi taglia un pezzo di grasso. Saturo (non si scioglie in bocca alla temperatura della lingua) e morbido. Masticazione, riposo in bocca, silenzio ed esplosioni di sapori. Nocciole, erba, fieno finanche banana. Eccezionale. Molto al di là di una certa toscanità, fatta di speziatura e pane sciapo. Quello che serve per i salumi ma non per tutti.

Il cinghiale è lavorato con moderazione: senza il mordente primitivo del sottobosco, il salame rimane morbido, quasi fatuo. Qui si staglia la doppia anima di Carlo, tra l’espressionismo burbero dell’immaginario trinciante e la dolcezza sottesa ma spietata di chi vede ancora il proprio desiderio come sinossi della propria vita.

 

MACELLERIA SALVESTRONI

VIA ROMA 18

ROCCATEDERIGHI (GR)

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