La nobiltà dell’allevatore… Pietro Sampietro

Tonco, ancorchè il profumo della collina sia appena accennato. Cancello e, dietro, la mia personale meraviglia. Vecchia fornace con ciminiera in mattoni rossi, trasformata in abitazione privata. Casa padronale in mezzo, foresteria e, alle spalle, la fornace di mattoni trasformata in stalla. Di una signorilità inglese, manco ci fossero i cavalli. Porte in legno e fascino industriale.

Volontà di potenza, giardino con erba all’inglese, scaletta applicata alla salita dei fumi e sguardo rivolto verso l’alto. Assolutamente rapito in quello che è sempre stato il momento di un vagheggio passeggero.

La diatriba tra tre soci è terminata con l’acquisto della tenuta da parte di Pietro. Riconversione dall’industria all’allevamento e mantenimento, iniziale, di alcuni posti di lavoro.

Vitelli, vitelloni, qualche manzo, qualche bue appena venduto e nient’altro. Una trentina di bestie per un uomo della terra autarchico, senza bisogni esterni, con sveglia, alimentazione, commercializzazione e compravendita di fatta artigianale.

Un allevatore in frac, con proverbialità di dialogo, ironia e proprietà di linguaggio. Niente studi ortodossi ma inizio allo sfacchinamento intorno ai quattordici anni, probabilmente senza mitologia, sigaretta maledetta e “musica del diavolo”. Bisogno, necessità e fallimento. Quello di famiglia, quello che allontana gli studi e gli agi.

Pietro, prima della maggiore età (senza nemmeno un passaporto e con l’obbligo di farsi accompagnare…), realizza l’illusione di commercializzare con la Francia. Fiere mastodontiche, dove in poche ore vengono vendute migliaia di bestie, tra il Cantal e la Bretagna, in quella regione ideale senza biglietti da timbrare e senza notti insonni, ma con il finestrino del treno carico di colline. Charolais, limousine e garonnesi da comprare in Francia e rivendere in Italia. Macellai e piccole botteghe. Rapidamente con ripartenza, fino a coinvolgere un’intera comunità nel mantenimento/commercializzazione.

La conoscenza del bovino mancava della valorizzazione del territorio. Il tempo passava, la “rivoluzione” era stata fatta, incisa su pietra con il nome di baby-beef (anni ’60, cereali a basso prezzo, ingrasso del vitellone con diete molto concentrate sino ad un peso di 450 kg), così l’etica e la necessità lo hanno spinto verso la Piemontese. Resa al macello e tenerezza della carne. Ecco la pietra filosofale dell’allevatore e ormai di molti macellai che non ne potrebbero più fare a meno. Il buon Sergio Motta, su tutti, nella sua opinabile albagia, considera le altre razze poco più di un marginalità. Prescindendo da allevatori, metodi e tagli. Il pregio, in molti casi, è una conquista con unghie e dogmi.

Pietro non presenta tracce di fanatismo, anzi. La libertà e la pulizia, che godono le sue bestie, hanno qualcosa della rarità. Le stalle, al di là di un fascino primigenio che mi ha fatto smettere di parlare, nella loro integrazione e rarefazione verso l’abitato, i mattoni rossi e la rivoluzione industriale, sono precise e ordinate. Algide come quella distanza che non possono che mettere le bestie. Vitelli, tori, manzette, vitelloni convivono in latenza da noia. Lui è un gestore autarchico. Le vacanze sono per un’altra vita. Ogni tanto, quando parte qualche giorno, un ragazzo, chiaramente non italiano, gli dà una mano. Stop. Del resto: negozi, botteghe, macellazione, frollatura e trasporto, si occupa lui.

Luoghi selezionati, gastronomie storiche, tagli sovrapagati e pellicce demodè. La clientela è quella di posti come Oldani a Milano, dove tartufo e filetti hanno la reminescenza di una Milano che non esiste più se non qui. Si respira la storia, la nostalgia e il privilegio. Quel vecchiume da classe sociale elitaria che ha una coscienza per il bello e per il buono. Rafferma ma basata su fondamenta. Quelle della conoscenza del prodotto, del produttore e della relazione. E qui, quel biasimato filetto, che le classi povere hanno potuto godere solo attraverso vetri appannati e tram strabordanti dietro le spalle, diventa l’emblema di una differenza.

Assaggiato in bourguignonne, ha tenuto fede al racconto e alla vista. Carne sapida, marcata e corposa, morbidissima, nonostante il poco grasso. Schietta, senza sofismi…

Ma l’ovvietà non è mai una caratteristica quanto un pudore, quello di Pietro che, convinto di continuare a fare il suo mestiere, ascolta e non chiede il parere… fuorisuscendo dal postmodernismo dove tutto è opinabile e ognuno è padrone a casa degli altri…

 

AZIENDA AGRICOLA PIETRO SAMPIETRO

VIA CASE SPARSE

TONCO (AT)

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