La pizza e i suoi segreti… Roberto Ghisolfi

Cremona è una città dormiente e flemmatica. Ha molte tradizioni, abbandonate perlopiù, e ha dato i natali a istrionici ribelli ad un’autorità placida fatta di coperte a quadri. I palazzi hanno la bellezza algida della staticità. Sono lì ma potrebbero anche non esserci. Il medioevo e le signorie hanno tracciato ma anche allontanato. Il Po, il suo clima, le sue nebbie e i suoi insetti hanno appiattito una cultura. Manca l’interesse per vedere se domani possa esserci qualcosa di diverso. L’oggi è una serie di posteggi e di locali demodè, piazze, acciottolati, porticati, torrazzi e campanili. “Fieramente provinciale”, bella e annoiata. Non c’è molto altro d’aggiungere e nemmeno da sperare. Guardando al di fuori delle “mura” e dei cartelli, si estendono campagne senza soluzione di continuità e, soprattutto, senza una reale generosità verso l’altro. Le cascine s’intervallano a temporalità di un passato sepolto e remoto. Così si rientra in città, speranzosi. Alle 13 di un sabato a pranzo. Senza lo stress del parcheggio e senza che le anime vive locali interrompano elucubrazioni e silenzi.

In una piazzetta, adiacente un parchetto, al di qua dell’immagine, rimane ingolfata nell’indifferenza la pizzeria di Roberto Ghisolfi, Lo Spicchio. Un modello da esportare.

La solitudine gustativa non l’ha guastato fino in fondo, ancorchè pecchi nell’etica del riconoscimento. Mulino Quaglia lo ha preso a testimonial insieme ad altri giovanotti generazionali e “toppinisti”, ma l’acredine è un buco nero con cui dialogare. Non è rilassato sul suo sapere, racconta, parla e inveisce un filo oltre quello che dovrebbero dire le sue pizze e i suoi prodotti. Ed è veramente tanto. Uno Zelig contemporaneo che ha appreso dall’industria e dalla grande distribuzione il mistero e l’arenile della gioia gourmet: la conservazione. Senza trucchi sul gusto e nemmeno sulla materia prima. Guardando, imparando e sperimentando. Basterebbe questo, invece Roberto oltrepassa la mostrazione e vuole dimostrare, nascondendo e ragionando sulla semiotica del desiderio e del raggiungimento, rimanendo nascosto e schermato dietro un sapere pitagorico, quasi mistico… senza comprensione e condivisione… limite?

Fredda cronaca: pizzeria deserta (ma questo più per demerito di Cremona e dell’attitudine che dell’ospitalità del posto), anonimato metropolitano e vetrinetta da ridondante pizzeria d’asporto. All’interno Roberto e sua moglie. Ospitali, gentilissimi e cordiali. Di una cortesia calorosa, spontanea, molto antica. Quel laissez faire curato, senza implicite complicazioni ma nell’ideale di tenere tutto al proprio posto, comprese mani e domande del cliente impiccione.

Penetrando all’interno della pizzeria, nulla mi colpisce. Né il forno né il fascino né la ricerca sul prodotto, ancorchè Roberto provi, ripetutamente, a sottolinearmi la fatica di portare la qualità in quelle lande deserte. Ed effettivamente la qualità c’è e si sente. Ma non tanto nella materia prima quanto nell’idea.

Nessun piano caldo, solo teglie fredde. Sessanta gusti di pizza diversi conservati a quattro gradi. Shelf life di venti giorni. Risparmio incredibile sugli sprechi. Instaurazione di un rapporto simbiotico con il cliente: la pizza è pronta da portar via nel cartone (chiaramente se non si vuole completare l’esperienza in loco…), arredata (del disco bianco…) ma anche corredata (se si decide per la farcitura…), mancano solo i dieci minuti finali della cottura nel forno di casa, da completare la sera o anche l’indomani, senza fretta e senza perdita nel gusto (provato chiaramente…). La novità è mutuata e mutuabile. Forse geniale… probabilmente non necessita di esegesi o di forzature…

Il lavoro sulla lievitazione è di alto livello. Tre impasti, biga di lievito di birra, lievito madre e idrolisi, mischiati, proporzionati e miscelati in dosi differenti. Farine bianche e integrali Petra, del farro, poche chicche e molta concretezza. Sul topping il lavoro è basilare, chiaro, di contrasto. L’acidità non è una qualità ma un difetto. E qui va il mio plauso. Anche negli accoppiamenti. Veramente straordinario il suo cracker a lievitazione naturale con crema di mascarpone, miele e sedano. Sulle consistenze c’è una maestria che se guardasse al di là dal bancone o al di là della porta si congelerebbe in un horror vacui senza requie. Ma fortunatamente sta bella chiusa nei forni e sfortunatamente sta ben celata nei segreti di Roberto e nella sua mancata comunicazione, che ha qualcosa di oracolare e qualcosa di menzognero. Non mi piace, non riesco a comprendere.

La pizza, nei suoi viaggi, tra Cremona e Milano, rimane assolutamente identica. La conservabilità non va ad intaccare leggerezza, digeribilità e gusto. Friabile e croccante al contatto coi denti, diventa eterea nella masticazione. Nuvola è l’unica metafora che mi sovviene. Poco terrena ma assolutamente appropriata. Il figlio, chimico, la materia prima azzeccata, la scelta di fare lievitare alcune paste già spennellate di pomodoro, gli accoppiamenti semplici ma non cervellotici (su tutti, l’utilizzo del sedano e la freschezza di alcuni abbinamenti, come una salsa dolce di peperoni accoppiata alla perfezione al piccante del formaggio…) dei prodotti, a volte addirittura algidi nella propria scientificità d’abbinamento, teglia e doppia cottura (è l’Idea… un po’ Ikea), sono tutti ingredienti che miscelati riportano ad un’unicità. E la bellezza sta nel retro della pasta, nella perfezione di alveoli e lievitazione.

Roberto è fiero della pizza, oltremodo tronfio del suo sapere, livoroso verso un mondo appariscente… a volte, veramente, solo per mere trovate pubblicitarie o per topping d’alto bordo. Qui c’è una dicotomia, c’è quell’assenza che è il preludio della fuga. Si dovrebbe fermare un filo prima, un filo al di qua del silenzio… e far parlare la creatività… basterebbe… ohhh se basterebbe…

 

PIZZERIA LO SPICCHIO

VIA DECIA 25

CREMONA (CR)

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