La razza maltese è illuminata… Luca Cammarata

Tra Caltanissetta e San Cataldo. Dove non può nulla neanche il GPS. Mancanza di segnaletica, strade dissestate che diventano crateri, sole allo zenit che toglie il fiato, miraggi all’orizzonte e colori così netti e così precisi da diventare quadro. L’amore per la Sicilia non può prescindere da queste terre, con le gradazioni di marrone che degradano dall’argilla al grano. Colline ricoperte di mandorleti e olivi e assenza: nella sua espressione totalitaristica, quasi violenta. Dominazioni e sottomissioni. L’origine e il futuro di un popolo che rimane sempre uguale a se stesso. Con la polvere diroccata che infesta le narici in prossimità delle fattorie, con quel pascolo dalla resa minima e dal gusto celestiale… tutto si risolve in una strada senza uscita, una delle tante che tolgono la pubblica amministrazione dalla responsabilità oggettiva, trasformando il viandante in temerario. Alla sommità, appare l’azienda agricola di Luca Cammarata, con il suo caseificio, la sua stalla e le sue duecento capre di razza maltese.

Luca fa della semplicità e della deferenza la sua improvvisazione più tranciante. Una miscellanea di generi e argomenti non riesce bene ad identificare le sue parole. Polisemiche e straripanti. Da dipendente pubblico della sanità, i suoi trascorsi familiari lo hanno spinto alla passione e alla memoria. Tenere vivo qualcosa che non esiste più, qualcosa che era un passatempo paterno, qualcosa da trasformare in un mestiere e in una sensibilità. La terra, la coltivazione dei grani antichi, l’allevamento di capre, di galline livornesi e siciliane e di suini neri, la trasformazione del latte (e su queste latitudini non è così scontato, perché comporta assunzioni, lavoro, critica, giudizio e riscontro con il cliente…) e il biologico che, in Sicilia, mancando del radical chic, si tinge di diversità, di una nuova possibilità di dare – dopo millenni di tradizione, di sfruttamento, di agricoltura intensiva e di espropriazione radicale della propria origine agricola – un nome sotto cui racchiudere i personaggi più estremi, i pazzi del paese, i contadini refrattari e quei giovani che sentono la Sicilia come un desiderio e non più come una necessità da salvare.

Luca crede al biologico come senso di rispetto. Molto più etico che estetico. Le sue capre sono al pascolo anche in agosto. Fave, un po’ d’orzo e fieno totalmente autoprodotto. Il resto è irto e arso. Il latte è poco. In lattazione, con quelle temperature e quell’alimentazione desertica, c’è un quarto degli animali. Si potrebbe fare diversamente, si potrebbe aiutare, gonfiare o mistificare, ma la straordinarietà del prodotto finale preferisce l’attesa e l’esiguità. Così Luca ha tre o quattro dipendenti, ha i suoi mercati in giro per l’isola, ha i suoi professori e i suoi maestri che lavorano assiduamente sulla genetica e sull’adattamento e, soprattutto, è l’unico (che mi risulta…) che trasforma il latte di capra maltese, una delle razze autoctone così difficile da trovare.

I formaggi sono senza definizione, con pochi nomi e una casualità controllata. Cagliate acide che danno strutture fresche di spalmabili che non hanno il tempo di stagionare, cagliate presamiche basilari per affinamenti che prendono le direzioni più impensabili. Inconsueti nelle proteolisi e nelle cremificazioni. Alcuni sviluppano occhiature anidridiche che riportano a stracchini orobici con quella mantecazione dell’unghia, sorprendente e straordinaria, altri invecchiano come tome ossolane, prese dagli acari e con paste, dopo oltre sei mesi, giallo ocra ed estremamente profonde al palato, altri ancora ritornano umidità e cantina dove umidità e cantina non ci sono; i freschi si sviluppano su direzioni differenti già a distanza di pochi giorni, con quella pasta bianco candido e quello sfrigolare da “tuma”, che solo in Sicilia ha questa fisicità, e con quei sentori lattici che della capra ridanno indietro la freschezza tenendosi il selvatico; e infine gli esperimenti, follie lasciate a se stesse per oltre due anni, da meditazione ma senza piccantezze estreme, difficili ma interpretabili… e tra questi non c’è nemmeno una Definizione. Rimangono solo la ricotta, che da buon siciliano addiziona con il latte, e lo yogurt. Aleatori e disorganici, come il loro padrone. Senza quella ricerca di fioritura (che viene spontanea…) che dalla Francia è ritornata come un dogma, senza quelle paste gessose o eccessivamente proteolitiche che del caprino ne hanno fatto un affinamento, senza nemmeno quelle caciotte, così grevi, che del sud ne han fatto un gonfalone di ricerca.

I suoi formaggi sono la sua alimentazione e i suoi grani antichi. Il russello su tutti. Quello che si fa pastificare da un mulino a pietra ragusano (per un risultato a bronzo estremamente piacevole nella sua integralità…), lo stesso che cerca di studiare per capirne l’origine: campagna granaria del governo fascista con la sua introduzione in Italia, probabilmente dalla Russia, dalla città di Taganrog, da cui il nome Tangarò. Non filologico, ma con un profumo senza un passato. Eccezionale.

Luca si destreggia tra tutte le sue attività non mostrando la classica speranza siciliana, ma rilasciando una certezza al di là di tutto, quella che ha abbandonato da tempo la lamentazione a fasi più importanti e dolorose della vita, per prendersi quello che è suo di diritto: questa terra che diventa polvere e rinuncia, quella perversione, che se si è Siciliani, non può non calamitare tutta un’Esistenza…

 

AZIENDA AGRICOLA LUCA CAMMARATA

CONTRADA CHIAPPARIA

CALTANISSETTA (CL)

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