La Toma Aigra: uno di quei formaggi per cui vale la pena fermare tutto… Luciano Serra

Campertogno. Caldo soffocante in pianura. Refrigerio a Varallo. Acqua pesante e abbastanza gelata. L’abbandono del pranzo e il sole secco mi fanno percorrere la Valsesia alla ricerca delle nuvole. Il Monte Rosa è totalmente nascosto. Alagna è un cartello stradale che non si adatta bene al turismo. Le sponde del fiume sono colme, le persone restanti sono un gommone in mezzo alle rapide. I paesi soffrono dell’abbandono milanesiano, quello dei tetti spioventi a ciglio strada, del Gioco delle coppie e dei mefistofelici anni ’80. I nomi delle frazioni, di quelli che sono paesi solo per necessità, spaziano dai lascivi Scopa, Scopello, Scopelle, Scopetta, ai sintomatici Muro, Isola, Piana, Bettola e Chiesa, dove il primo impatto è anche l’ultimo. Eppure la roccia, i campanili, la montagna diroccata e quel rumore di fiume in piena non riescono a non rilassare. I baracchini pro-colesterolo e i caseifici da cagliata congelata non sfuggono nemmeno questa valle, dove la tipicità è rimasto un vezzo di pochi.

Eugenio Pol, insieme al suo pane, oltre due anni addietro, mi diede un pezzo di formaggio che misi da parte per dedicarmi ad altro. Poi lo presi e non capii francamente la portata di quell’unico e di quella lavorazione.

Toma Aigra. Chi la fa? Non è dato sapersi. Anche Eugenio, nella sua sincerità da fuga in Bretagna, non riesce a darmi una risposta. Mi dice solo chi lo affina. Così passano due anni e, guidato da un caso lucido, mi trovo su un ponticello in legno davanti ad una bottega piena. La Valsesia è così dipendente dal suo fiume, da rilasciare poco e troppo lontano. Esistono alpeggi, esistono valli, esiste Livio Garbaccio e gli altri del Macagn, esiste qualche macellaio locale e qualche pazzoide che a duemila metri ci porta le capre. Il centro unificatore di tutto si chiama Luciano Serra, anima e affinatore de La Truna, cantine di stagionatura in dialetto locale.

Potrebbe apparire come il posto “acchiappa-milanesi-per-una-serata-a-base-di-puzza-di-vacca-proteolizzata” ma la franchezza di Luciano è disarmante. È talmente entusiasta da dimenticare la vendita. O forse non l’ha mai considerata. Nonostante il solerte compratore domenicale e l’odore di stupefazione. Ha una passione che prescinde dai ruoli e dalle stagioni. L’assaggio è sempre una prova del suo lavoro, la soddisfazione di qualcosa di piccolo, di raro… che negli affinatori non c’è quasi più.

Intermediario e rispetto degli estremi: produttori e clienti.

La Toma Aigra è un formaggio impossibile, figlio di generazioni dimenticate e di un paio di pastori che ancora la producono, probabilmente all’oscuro dell’unicità. Una volta alla settimana, spesso la domenica, il latte, lasciato a contatto con il rame, con i suoi tempi dilatati, in determinate condizioni ambientali tra legno e umido, acidifica senza aggiunta di caglio. Forma simile a un Castelmagno e oltre gli otto mesi di stagionatura in cantina. Pasta bianco abbagliante e un filo gessata. Né elastica né cedevole. Dal gesso al muschiato. L’acido iniziale sparisce per apparire sotto forma di erborinatura (quando capita) o di dolcezza. Un prodotto incredibile ma difficile da penetrare. Le forme prodotte, in un anno, credo non superino il centinaio. Luciano non può esportare e non può fare proseliti. Se lo tiene per sé, più per necessità di fare bene che per volontà di potenza. L’egoismo è una sottile forma di bisogno. La tutela del produttore è una forzatura mancata e, in questo caso, Luciano, a differenza di colleghi e venditori di fumo valligiani, ha preferito non scoperchiare il vaso, creando in pianura quello che della pianura non è. La toma Aigra ha delle facce e dei nomi poco asfaltati e poco definiti.

La sacra rappresentazione del formaggio lo spinge a continuare a tagliare e a raccontare. Cantina piccola e umida. Macagn di Garbaccio, di Negra o di Fresco; toma affinata con le trebbie della birra JEB, quasi ossolana nel genere, crosta proteolitica e giallognola, sapore incostante ma lattico, bel contrasto tra l’unghia e la pasta; toma affinata nel fieno autoprodotto dagli stessi allevatori, giovane, fiorita e pulitissima, probabilmente ancora un filo indietro nello sviluppo di retrogusti; ricotta di capre al pascolo oltre i 2000 metri: setosa (ha la consistenza di un vaccino…) e legnosa, con quell’accenno fumé casualmente esercitato dalla cottura a fuoco diretto in caldere di rame. Una sola volta a settimana quando va bene. Il pastore sale ma non sempre scende.

Luciano continua a tagliare e a mantenere quell’atteggiamento semplice e dissacrante. Nessun mito, la Giuncà per prima (così tanto esaltata da lontano, così poco condivisa da vicino… basta prendere una guida gastronomica e assaggiare un formaggio… i critici hanno sempre un prezzo…), ma troppi segreti. La paura della mimesi è già di per sé creazione d’identità. Ora ci vuole rilassamento e comunicazione. Nel nome della toma aigra: clichè o claim?

 

LA TRUNA

CORSO UMBERTO I 11

CAMPERTOGNO (VC)

Mirco Feltrin

Bellissimo articolo che esalta profondamente la Passione vera di Luciano e Enrica, li conosciamo da molti anni e riuscire a resistere a questa società di consumismo, senza cultura, senza conoscenza consumatori guidati da immagini di un televisore più che dal proprio gusto e dalla propria analisi.
Loro resistono nonostante tutti i sacrifici in questo bellissimo angolo lontano dalle mode del momento….
Grazie a loro per resistere nella loro passione che ci permette di sentire ancora dei gusti unici, dei gusti veri, dei gusti sinceri…. Bravi a loro e a voi per averli trovati 🙂

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