L’allegoria del Buon Pastore… Andrea Preci e Annarosa Nonne

Montefiore Conca. Estreme propaggini della provincia di Rimini. In quellI che erano avamposti dei Malatesta. Abbastanza distante dalla rocca che domina il borgo, l’azienda del Buon Pastore non ha indicazioni che la determinino e nemmeno strade così suadenti o ampollose che la raggiungano. È isolata nella sua bellezza, fatta di rimandi al passato, di recupero di materiali di scarto e di solitudine. La stessa che porta, ogni giorno, la figlia diciassettenne, di Andrea e Annarosa, a prendere la corriera (con quel fascino tutto meridionale che si nasconde ed esplode in un nome e in un oggetto così desueto…) per andare a studiare ad Urbino e per uscire con le amiche…
C’è un verde senza requie, che fiacca i sensi, che non pone delle domande ma dà direttamente delle risposte. Quelle che ha donato ad Andrea (bolognese trapiantato in Romagna) e ad Annarosa (sarda, giunta da piccola con i genitori e con il gregge di pecore per iniziare una professione, tanto antica, quanto terrosa…), quando hanno deciso di rilevare il gregge e il mestiere, le stesse che sono giunte nel momento di decidere di smettere di conferire il latte ad un caseificio marchigiano e di iniziare a percorrere la strada della burocrazia, delle Aziende Sanitarie, delle normative e delle regole intransigenti.
Hanno atteso una risposta, la possibilità di legare la stalla al caseificio e di potere iniziare un nuovo mestiere. Diversamente, sarebbero stati costretti a vendere, a cambiare e, probabilmente, ad andarsene. Invece, e fortunatamente, hanno resistito e, lo hanno fatto, senza puntare scientemente o in maniera mirata sulla comunicazione (del tutto latitante). Nessun sito (e vabbè), articoli pochi e scritti male (tipo “latte crudo, pastorizzato direttamente in azienda”), in modo da non rendere merito ad un’azienda che si è spogliata  di qualunque tipo di sovrastuttura (… ma forse non le ha dovute mai cercare), di filosofia, di concetto, di pulito e di giusto, per fare una cosa assolutamente imprescindibile da mani e sorriso. Quello meraviglioso di Annarosa quando penetra nelle sue celle di stagionatura e quello lento, destrutturante e tranciante, di Andrea quando, nella solitudine di due paia di orecchie, inizia a raccontare la sua storia, la sua pancia, le sue difficoltà e le sue immense soddisfazioni di pastore a contatto con il suo centinaio (scarso o abbondante non ricordo) di pecore di razza esclusivamente sarda.
Andrea al pascolo e alla mungitura, Annarosa alla trasformazione, alla caseificazione e alla stagionatura.

Non disdegnano l’affinamento e nemmeno l’infossamento di qualche forma (ben circostanziata e localizzata nel punto migliore della fossa) che, non sprofondando nei meandri dell’umidità, rilascia una lieve piccantezza a fronte di un a sapidità di latte che arriva al retrogusto con la forza di un pugno. Straordinario nella sua rarità che si manifesta in un solo e prezioso pezzetto. 

Il formaggio di pecora, soprattutto nella declinazione “pecorino sardo”, è sempre stata la tradizione di anime erranti, povere e incolte, qualcosa che profuma di bucato, di rughe e di mesi passati in compagnia delle stelle. Annarosa e Andrea (le pecore) le hanno circostanziate, le hanno messe all’interno di pascoli di proprietà, in modo da tenere lontano le transumanze, figlie di nonni e di estati passate in mezzo al nulla. Ma l’autarchia è un cimelio che, ogni tanto, va mostrato. E quindi, a fianco del caglio di vitello, hanno affiancato la produzione di uno strepitoso pecorino lavorato col caglio di cardo gobbo, lasciato crescere brado in azienda.

Più morbido ed elastico dello stesso prodotto caseificato con caglio animale, esprime, ovviamente (ma con persone e aziende di questo tipo, ripeterlo giova sempre a tenere viva l’immagine di beatitudine…) a latte crudo, differenti sentori di latte, aromatici e profondi, qualcosa di estremamente lungo e olfattivo. Eccezionale (soprattutto nella versione più “spinta” concessami da Mauro Ricciardelli, con quella piccantezza che rivolge la lingua all’unicità…).
Il suo compare, a presame animale, più duro e più pedissequo, nella lunga stagionatura porta tranquillamente alla dicitura “pecorino”, ma nella breve è come se fosse tranciato nella sua maturazione, non esprimendo fondo, ma regalando istantanee emozioni di possibilità. Una patafisica immaginata che regala, comunque, ottimi accostamenti (mieli, marmellate, cugnà e quant’altro…).
In mezzo ad una ricotta (non particolarmente cremosa, ma stabile e granulosa, perfetta per i salati, meno per i dolci…) e ad un semplice ma straordinario raviggiolo, lievemente burroso, nota lattea e ottimo compagno di viaggio per vari piatti, m’imbatto in un Appassito, ingabbiato nella forma di una piccola robiola circolare, cagliata presamica, proteolisi suadente all’occhio e strepitosa in bocca, gusto amaro e fragranze di meraviglia…

Annarosa ha una profonda umiltà e una profonda deferenza verso i formaggi che crea. Magari è solo rispettosa delle sue conoscenze e di quella che lei può percepire come semplicità. “Di pecorini, in Italia, ne trovi quanti ne vuoi”, recitava il vecchio adagio di un dissoluto e debosciato enogastronomo… Ma qui c’è qualcosa di diverso, siamo in Romagna, in una terra vocata ad altro (ancorchè i greggi di pecore sarde si spargano a macchia d’olio tra i declivi collinari…), c’è l’anima e la speranza di una famiglia, indissolubilmente legata alla contemporaneità, ma conscia di quello che il passato proponeva e che il futuro potrebbe tornare a togliere… E lo vedi negli occhi di Andrea quando mi racconta, aprendosi in un sorriso, di quando vanno in vacanza e lasciano il gregge di pecore nelle mani di famiglie di amici che si prodigano per un desiderio (la gioia dei figli) e trovano risposta al bisogno di qualcosa di più umano e sincero…
Me ne vado e sento il silenzio della riconoscenza…

IL BUON PASTORE
VIA CA’ SANTINO, 1963
MONTEFIORE CONCA (RN)

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