L’esigenza di una tradizione… Matteo Maini

Pianello Val Tidone. In mezzo ad una di quelle terre che da sole non sono mai riuscite a salvarsi nè a mostrarsi. Tra quelle colline, quelle strade distrutte dalle nevicate, quelle viti, quelle trattorie così tipiche da non abbisognare più nemmeno di un cartello o di un’insegna, le somiglianze arrivano facili alla vista e all’udito, anche senza pubblicità. Le valli piacentine, prime propaggini di un appennino non sentito come tale, vengono tagliate da fiumi e torrenti e lasciano alla val Trebbia di Hemingway il compito di segnare il passo e di veicolare l’immagine. Lì, tra le fronde e i guazzabugli dei vigneti, su quella strada fatta di castelli ducali ormeggiati e preposti, tra torrioni e merli, alla battaglia e alla noia, ci sono delle strade imbiancate che uniscono, portando fuori e che disuniscono, riconoscendo la distanza, quella di persone che non si conoscono se non per sentito dire, che è troppo distante il paese accanto per dirimere una controversia, che i salumi più buoni sono quelli del norcino dietro l’angolo e che i tortelli che nonna faceva, mentre la farina viandava tra mani e guance, non li ripeterà mai più nessuno… almeno nell’emozione… lì, dicevo, tra un grifo, una pasta dozzinale e una culaccia, si distingue l’effige dell’ennesima bottega storica, quella Macelleria Maini, lascito di un ‘900 mai superato e mai prevalso.

Ad accogliermi, in post-prandiale-assonnato sabato pomeriggio c’è Matteo, figlio di Ernesto che, a metà anni ’50, dopo la più tipica delle esperienze come garzone, rilevò l’attività. Il pacchetto si completò nel corso degli anni: ghiacciaia (da riempire di neve l’inverno in modo da controllare le temperature i mesi successivi), macello, cantine, stanze di stagionatura e locale vendita.

Il macello, uno dei pochissimi rimasti dopo le chiusure dei micro-macelli di una decina di anni fa, è nuovissimo, con stanze ben definite, all’interno di un granaio, con porta ottocentesca in legno ammansito e stalla di sosta per bestie assolutamente e rigorosamente locali. Lo stress è eliminato alla radice. Se si tratta di Piemontesi o incroci francesi, difficilmente si va oltre i 40 km, tra allevatore e macelleria.

Qui, in questa semantica emiliana, così simile ad una definizione di antico, Matteo ha deciso di non tradire la mistica del luogo: le lunghe cotture. Bolliti, stracotti e brasati, quelli al di là della conoscenza giovanile, gli stessi che rimangono nei palati di quattro anziani del paese e nei libri di ricette. Matteo ha deciso per il bue (oltre chiaramente a qualche vitello o manzetta…) e per le lunghe frollature (tra i trenta e i sessanta giorni…), sta tentando di mantenere delle usanze che il sotto-vuoto, il pre-tagliato e il già-mangiato stanno cercando di portare via.

E così, ogni settimana, si macella almeno una bestia. Niente selezione della razza ma mitologici racconti, come quelle Reggiane di oltre una tonnellata, ormai troppo vecchie per la maggior parte dei macellai, portate a casa prima di un Natale e ancora bene impresse nelle memoria di alcuni clienti.

Cappelli del prete e costate, in diverse cotture e differenti soluzioni e accompagnamenti, rimangono impressi senza esibizionismi, smancerie o pietismi. Carne morbida, non particolarmente marezzata, frollata e scura, gusto sapido, note un filo sotto il selvatico e retrogusto ferroso. Contadine, quotidiane e senza fronzoli.

Alimentazione prima di tutto, assenza di stress in seconda battuta e macellazione bovina tenuta fra le mura domestiche, per evidenti motivi ideologici, evocativi e storici, ma assolutamente non “conveniente”, per il finale. I suini, al di là di alcuni pregiati casi, si prendono già macellati e si lavorano. Unica eccezione per la culaccia (buona, ma senza sobbalzi…) che viene comprata fresca e portata a giusta stagionatura.

I salami e le coppe stagionano a cavallo dell’anno. Le coppe, nelle migliori realizzazioni di salagione a secco, mistura di aromi e poco salnitro, sono compatte, marmorizzate, dolci al naso e delicate, nonostante il sapido affinamento, al gusto. Ancorchè in provincia di Piacenza, è comunque un prodotto raro in queste lande e di questi tempi. Solitamente sono realizzazioni da animali devastati da alimentazione e incuria, fatte in salumifici industriali, da camici bianchi privi di ironia e di raffinatezza palatale. I salami, retaggi di stagionatura in volte mattonate con aria filtrante da piccole botole, unico collegamento alla modernità, sono incostanti e destabilizzanti. Si va dai problemi (il naso può percepire umidità residue e l’occhio gli spazi vuoti, segnale di possibili irrancidimenti o muffe interne) ai capolavori. Questi sono ben distinti nella possibilità di afrori lunghi, decisi, straordinari. Come quei dieci mesi di invecchiamento che al gusto arrivano con grana grossa, scioglievolezza e facilità.

Matteo mostra ed entra lentamente, ma con purezza, nella confidenza, ha tratti del viso semplici, da ragazzo di provincia anni ’90, di quelli che uscivano dalla chiesa per entrare in bottega e per mettersi sotto le coperte, uno di quelli che, se fossimo in una periferia segreta del South Dakota, rappresenterebbero la fucina di musicisti e pensatori. In Val Tidone è un semplice macellaio, senza narrazioni e narratori…

 

MACELLERIA MAINI

LARGO DAL VERME 31

PIANELLO VAL TIDONE (PC)

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