Lo Stradivari prende vita. Aldo ed Enrico Del Curto

del curto

Chiavenna. Macelleria Del Curto.
Mi accoglie Aldo, il responsabile delle pubbliche relazioni, come lo definisce suo nipote. Oltre sessant’anni e non sentirli. La circospezione è figlia di queste valli e si declina in domande sulle motivazioni che spingono ad interessarsi di qualcosa lascito di un passato e non di una scontata modernità.
Superata la diffidenza del perché, lentamente, si getta nel racconto della sua professione. Andando per gradi. Iniziando dalle parole come per vedere la profondità che possono raggiungere. Continuando con i gesti (braccia distese e tese alla comunicazione e mani empatiche). Finendo con gli occhi che, in maniera rapsodica, si alzano dal pavimento e scintillano imprevisti e antichi. Mentre racconta, mi porta in giro attraverso le stanze del palazzo.
Digressione su Slow Food. È cambiata. Parole sue. Quello che, a metà anni ottanta, Carlin Petrini e la sua ciurma hanno fatto, per la bresaola e per il violino di capra, è stato rivoluzionario, preciso e rispettoso delle tradizioni. Li ha portati fuori, togliendo la patina e mantenendo la prammatica, in un movimento dialettico hegeliano e potente. Oggi la grandezza ha allontanato i piccoli dal vertice, un po’ per mancanza di coesione, un po’ per interesse commerciale. Ma il suo sguardo è quello del profondo rispetto e della più che fortunata coincidenza.
Stanza di essicazione dove le carni, grazie al clima asciutto, possono iniziare il loro percorso. Stanza di affumicatura, dove i legni di faggio, per almeno tre ore, aggiungono quel tocco di diversità e alterigia che trasforma la bresaola (tipica della Valtellina dove il fumo diventa spezia e il sapore diventa aroma… a volte per esaltare, a volte per coprire) in brisaola della Valchiavenna. Stanze di stagionatura (aria tersa e asciutta di montagna) per l’ultima rifinitura: dalle quattro alle sedici settimane, la bresaola (alcuni proseguono oltre i quattro mesi, mettendo in atto “una forzatura fascinosa”…), almeno cinque mesi, il violino.
Aldo (protagonista) continua nella mostrazione della diversità. In questi luoghi ricolmi di brisaole, slinzeghe, violini di capra e speck nostrani, mette in atto un numero daKammerspiel tedesco di inizio Novecento: coglie la nostra provenienza milanese (antagonisti), sorride, ci fa entrare in una di queste stanze dove la temperatura si abbassa e la muffa, da contesto, si trasforma, in maniera aromatica e visiva, in deuteragonista; ci indica vari salumi, prevedendo le nostre domande e poi si sofferma, portando a spasso i nostri occhi, su una calza contenitiva al cui interno pende una bresaola. “Questa è quella dei milanesi. Punta d’anca. Più pregiata sì, ma con meno sapore”. I lavoratori dalla palestra facile e dalla dieta antineuronale vogliono la salute e la bellezza. E questo gli viene dato. Ma io insisto.
Lui prende le sue comparse e ci fa salire una scala (non prima di averci mostrato la vecchia cantina dove stagionavano i suoi avi e che, ora, pare sia contraria alle norme…). 

  Coltello in mano e bancone in acciaio, in pieno stile pulp, ci invita a una sfida… una sorta di prova iniziatica: gli hanno riportato un violino di capra perchè il colore della carne non era quello che doveva essere e la salatura era andata troppo oltre. Inizia a tagliare. Lo strato superiore, più secco e meno salato, riportava al selvatico delle valli e di quelle razze (orobica su tutte, ma sono ammesse anche camosciata, saanen e fontanasca) che discriminano in maniera così netta, attraverso il gusto, la libertà dall’oppressione. Era un violino di coscia di circa tre chili, andato effettivamente troppo oltre nella sapidità. Non lo tiene come vuole il folklore, a mo’ di stradivari da dove sfilettare piccoli pezzi di prosciutto, ma l’appoggia sul banco. Continua a tagliare per leggerci in volto le differenze….
… Salatura, affumicatura e stagionatura per almeno cinque mesi. Odore persistente di legno e alloro con un retro effluvio di ginepro. Rosso porpora vivo. Brilla nella sua crudità e rimane morbido al taglio, quasi svenevole al contatto con il palato. Gusto selvatico e retrogusto fumoso. Un prodotto unico nella sua particolarità ma molto complesso da rendere quotidiano. In un concetto: slow.

Nemmeno finita la prima degustazione, arriva il nipote con un piatto di brisaola di sottofesa, lanciandoci la seconda sfida. Ma qui perdiamo… nessuno di noi si è più ripreso dopo l’assaggio e la ragione non ha avuto nulla da determinare.

– Brisaola della Valchiavenna: parola alla carne. Rosso veneziano. La razza del manzo non fa la differenza. Simmental o pezzata rossa. Diversi tagli. Dalla punta d’anca alla noce, passando per fesa e sottofesa. Cambiano i livelli di marezzatura ma anche i livelli del gusto. Noi assaggiamo una sottofesa e una noce. Entrambe strepitose. Morbide, essiccate ma crude. Ancora vive con quell’aroma lievemente affumicato che ti porta lontano dalle normali concezioni e conoscenze. Poco rassicurante nel suo essere rivoluzionaria. Mangiata “santa” (senza aggiunta di olio e limone) si compie nel raggiungimento di un sapore. Un esistente che non abbisogna che di se stesso.

Camicia e gilet demodè, occhi brillanti, parlata sarcastica ma non provocatoria, Aldo ci invita a provare, a cercare e provare, per assaggiarne altre, per vedere cosa è rimasto e come è rimasto. Poi, attraverso una finestrella, mi mostra suo fratello Enrico, dedito e intento a tagliare la carne. Dietro non ci sono ragazzi (eccezion fatta per suo nipote), allievi  o strateghi, c’è solo un futuro da consumare senza guardarsi alle spalle, sperando che quel gusto, che continua a perdurare tra queste righe, tra questi punti, tra queste virgole e tra questi superlativi, si possa insinuare nella vocazione di qualcuno che lo trascini e lo lasci fuori dal magmatico nonsense che ha trasformato un manzo in uno zebù argentino… ma questa è un’altra storia e ve la racconteremo presto…

MACELLERIA DEL CURTO
VIA DOLZINO, 129
CHIAVENNA (SO)

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