L’umiltà della filiera a ciclo completo… Giovanni Zavoli (e famiglia)

Saludecio. Un posto che rimane sul confine. Che in pochi conoscono e ancora in meno nominano. Non ci sono cartelli che definiscono la bellezza, torrioni in lontananza e strade dei sapori. Si sviluppa, su un territorio collinare, con al centro di tutto, la vista. Quella che ti fa dimenticare le distanze, o le fa azzerare, la stessa che ha ibernato un angolo di bellezza e lo ha distanziato dalla massificazione, dal turismo mordi e fuggi e dal pellegrinaggio giovanile-maniacale della ricerca della mutanda adatta alla serata in riviera. Qui, distanziati di qualche kilometro, l’uno dall’altro, con la libertà di conoscersi, di vedersi, di frequentarsi, ma soprattutto di coltivare i propri olivi e la propria solitudine, lavorano, incantano e blandiscono con l’inganno alcuni personaggi degni di immensa beatitudine (la famiglia Zavoli e Mauro Ricciardelli che ritroveremo con il piffero in mano, tra le righe o nelle ampolle della platonica delvigneron ideale…) e un anfitrione ubriaco di sangiovese, sesso e idiozia, per cui partono bus di pellegrini alla scoperta di quanto sia buono il bustreng “che i bambini hanno imparato ad amare e a non sputare” e quanto sia demodé il pane a lievitazione naturale, così avverso all’ubriacatura molesta delle due di notte…
… ma le brutture non mi distraggono e, attraverso quelle curve che, placidamente, né invitano né invidiano, arrivo all’Azienda Agricola Zavoli, dove è lì ad accoglierci Giovanni, il figlio più piccolo, quello che ha imparato una professione, quello discolo, che non è stato rapito dalla cultura cattedratica e nemmeno dall’estasi dionisiaca di una maglietta rosa con il collo a V da dove far spuntare i muscoletti, ad uso e consumo della squinzia in vacanza monacale…
Lo fa con la gentilezza, la bellezza e la bontà di un sorriso. Le epistole mostravano timidezza, i gesti la corroborano. Non rimane sulle sue, non aspetta la domanda o che gli chieda di dimostrarmi “la sua agilità nel sezionare e disossare i tagli bovini” (in snobistico, quanto retrò, macellaio piemontese style…), ma sorride limpidamente, nella convinzione e nella felicità. E all’inizio sono io a nicchiare. Il mio viaggio era già una memoria, i racconti lo avevano preceduto e anche la loro difficoltà di mettere un bel filo spinato contro le dicerie e contro quei ristoratori che utilizzano il loro nome in carta (dopo magari aver preso una volta, cinque anni prima, un pezzo di lardo da avvolgere intorno alle panatine, per regalare quel tocco di territorio che piace al motocilista veneto in zingarata tra le curve…), togliendogli il fascino e ragalandogli la massa. Ma Giovanni scrolla le spalle, sottolineando che, per rispetto verso quelli che comprano una tantum, continua a pensarci ma senza trovare una soluzione…
La giuntura la trovo, sottraendo orecchie, all’interno delle stanze di stagionatura e del freddo. Accorciando la distanza e abbassando la voce. Lì è esplosa la sua passione di grande norcino contemporaneo…
Il posto è lindo, c’è qualcosa di Ed Gein, qualcosa di Sergio Motta e qualcosa di visibilmente e smaccatamente poetico. La giornata è quella del non lavoro, quella della festa. Il piccolo macello, dove gli arrivano le mezzene di Bianca Romagnola e di Mora Romagnola, ha un odore di disinfettante che tende alla fermentazione acetica del lievito madre. Qualcosa di corrosivo che conduce alle stanze di frollatura. Le scottone e le manzette vengono macellate tra i 22 e i 24 mesi, si attestano sui tre quintali e mezzo e non perdono un grammo in cottura. Posteriori e mezzene sono asciutti, intonsi, i liquidi rimangono dentro con la tenerezza, la proteolisi, l’ossidazione e il gusto, quello che obnubila, esalta, quello che prende al cuore, come una puntura d’adrenalina, quello che fa girare gli occhi, le mani, guardare sorridente l’amico, con una mano sulla spalla, quello che ho assaggiato e che difficilmente gli ridarò indietro. Un po’ per l’impossibilità della mia penna di riportare icasticamente il momento in cui un filamento di tartare di manzetta, affumicata con il legno di ulivo e cucinata da Paolo Bissaro (idolatra anacronistico, agnostico feticista della bellezza, cuoco e musicologo con la passione per lo sguardo delle cose e per l’incoerenza delle vite umane, che ha trovato “casa” nella cucina della Locanda Bel…), è finito nella mia bocca, un po’ perchè è impossibile ritrovarsi, ritornare, riassaporare un momento senza tempo, uno di quei rari momenti di felicità che, se si raccontano, si raccontano male, perchè, appena passati, son già diventati una coda tra Cesena e Imola.

Ecco, quella tartare e quella fiorentina (taglio che solitamente tollero poco, più per incapacità che per ideologia…), cucinata sulla brace, con la leggerezza aromatica e il colore rosa della cottura per cui non si chiede la lunghezza ma si assoggetta il sapore ad un sapere (quello dello chef, in questo caso…), mi hanno ridato l’anima di una famiglia (Fausto, il padre, esimio macellaio e grande norcino, Matteo, il fratello, lunatico agrimensore, custode di biodiversità, e Giovanni,una passione sdrucciolevole verso l’arte della norcineria…) che ha preso la filiera completa e l’ha innalzata a concetto: cereali prodotti in azienda (tra cui un grano gentil rosso con un profumo molto prima e molto dopo il gusto), maiali allo stato semi brado, vacche e polli di razza romagnola, qualche faraona, un paio di gatti, qualche biscia che passa sotto le gambe di un disattento cane, macellazione seguita in maniera pedissequa, trasformazione, frollatura e stagionatura terminate in azienda.

Un miraggio di campi e di fiori, di macellai e di allevatori, una difesa della razza, del territorio, delle tradizioni e dell’essere autoctono di un popolo, che prende il parossismo e lo sposta molto oltre… verso quella Fata Morgana che inganna, facendoti scambiare il boccone di spalla cruda di mora per la Croazia oltre l’Adriatico e mettendoti sul lisergico bus dei Merry Pranksters di Ken Kesey, dove tutto è più arrendevole…
Quando la mia bocca si avvicina all’orecchio di Giovanni, con le temperature delle celle che si abbassano e le pancette, i capocolli e i salami che pendono, mi accorgo della felicità, silenziosa, che scintilla da quegli occhi… La stessa che ritrovo nel momento degli assaggi, quelli che lui si procura di mantenere sobri, ma sotto un controllo che guarda la soddisfazione degli altri e cerca di portarla oltre. Nell’attesa di tagliare, ha creato un percorso adatto alla voglia. E lo ha cercato di capire dalla dilatazione delle pupille, dallo sguardo sapido e dal movimento delle mani:

    – lonzino di mora romagnola: una botta di stupore. Nel controllo del sale, nell’immagine (che nulla c’entra con un lonzino di maiale rosa), finanche nel sapore. Una bordura di carne addentellata ad uno strato di grasso polinsaturo che non ha una consistenza ma un’alea, si scioglie appena appoggiata alla lingua, lasciando un gusto deciso di straordinaria tradizione. Come quella che spinse suo padre, quando le razze autoctone erano viste attraverso una lente mortuaria, (di mora ne erano rimasti 13 esemplari, conservati da un anziano allevatore di Faenza, Mario Lazzari, che ne riprese lentamente l’allevamento…), a credere in un valore ed in un patrimonio…

– prosciutto:  subisce l’importanza dei salumi che l’hanno preceduto, regalando dolcezza, ma senza profondità (Illuso!… riassaggiato nella solitudine, lascia secchi, quattro giri all’inferno e un paradiso che rimane miraggio… straordinario rapporto tra grasso e magro, tra l’amaranto e il diafano)… 

– spalla cruda: empireo assoluto, uno dei salumi più incredibili mai appoggiati sulla lingua. Più sapido del prosciutto, di profondità e di concetto, carne più secca, senza l’unto che mischia, tiene i sapori del grasso separati da quelli della carne, raggiungendo gli stadi delle papille, anche i più nascosti: dolce, amaro, sapido, neutro… straordinario olfatto… vale veramente, nella solitudine, il viaggio…

Il resto è meglio che ci sia (salami conciati con solo sale, pepe e vino, senza nemmeno salnitro, e fatti stagionati in cera d’api, che allunga la vita del salume di almeno un anno, capocolli tagliati più spessi per diminuire il punto di salatura, un grande salame di vacca romagnola e una bresaola, sempre di bianca, di sotto fesa, con gradazioni di rosso che si spingono fino al carminio, venatura centrale e sapore distante ma non in direzione valtellina, anni e anni indietro nel tempo…), ma io resto lì, al volto di Matteo e a quel candore che sta cambiando un mondo, in maniera silenziosa. Il futuro, se non fosse qui, non sarebbe in nessun luogo…

AZIENDA AGRICOLA ZAVOLI
VIA PULZONA, 3678
SALUDECIO (RN)

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