L’umiltà della terra esce dal camino e rientra in un’anima. Davide Garzino

Calcinere Superiore, frazione di Paesana. Minuscola. Uno dei primi lembi del cuneese. Il Monviso è alla spalle, davanti, di fianco. Domina, in tutte le etimologie che si possono trovare in questa parola. Governa le ombre e le luci, le nuvole e il verde. Se fa un cenno di stanchezza o di invadenza, bisogna aspettare, guardarlo passare e provare a tirare le somme. A meno che non si voglia far ammirare e allora, lì, ti viene voglia di creare e inventare. E così è successo a Davide Garzino che, in attesa di un colloquio a Torino, in una fredda stanza, piena di una gracile ebbrezza di multinazionalizzare le sensorialità e il  drink del sabato sera, si è imbattuto in una finestra che apriva un paesaggio di generalissime vette innevate.
“Ho cercato di preparare la risposta questa mattina….eh sì… pensavo alla possibilità di una domanda su quello che avrei voluto fare con la laurea in ingegneria…. Non mi è venuto nulla. Io ho sempre saputo che sarei ritornato qui per fare il pane”. Il colloquio saltò, il panificio lo riaccolse sotto quel lembo di vestito rappresentato dalla capacità del padre di non ridursi ad una sola dimensione. Quella di non poter decidere, quella di consumare la scelta tra prodotti diversi. Ha rivisto l’uomo e lo ha riaccolto come figlio. Senza bisogno di profumi biblici e di ritorni epici.
Poi lui è succeduto ad una tradizione che si tramanda da fine ‘800, senza tradimenti,  ma sempre con le stesse metodologie, le stesse quotidianità e gli stessi sapori. Il filo rosso, molto sottile, ha portato all’interno di una parentela quel non so che di emotivo, vitale e atavico che non può slegarsi ma può aumentare, in maniera naturale, l’intensità. Una passione che non può rimanere chiusa in ufficio, in quattro mura ricoperte di premi e certificazioni e nella decisione se mettere sul mercato lo yogurt con il sentore di montagna o quello con la nostalgia della fanciullezza. Ma senza vetri rotti, pianti latenti e frasi non dette, senza fughe e corrosioni di stomaco. Il suo ritorno è stato all’insegna del silenzio.
E così tutto il suo percorso. Forse a metà strada, forse ancora prima. Con tanta esperienza ad alimentare le sue capacità e con altrettanto rispetto verso quelli che ha tempo di conoscere e di ammirare, quelli che dormono con il lievito sotto il cuscino (senza la celeberrima data di creazione, escludendo la quale, il nuovo trendy ristorante milanese mancherebbe l’obiettivo delle tavole chiacchierate, piene ed entusiaste, con lo scemo di turno a farsi la foto con la “madre” di ottantacinque anni… ancora ampiamente desiderabile…) o quelli che la sera, prima della preghiera, del bacio sulla fronte e dello sguardo verso una moglie con il volto sereno della comprensione, tirano su il canovaccio di tela per controllare acidità, occhiature e stato delle cose. Tutto, in un paesino di settanta anime, troppo lontane per poter accorgersi della differenza.
E se mentre impasti, guardi fuori e vedi un verde senza requie, allora la decisione non è più qualcosa di freddamente razionale, si  amalgama con l’istinto e si cheta nell’unica definizione disponibile in anni di letture, a cerca e a vuoto: Poesia.
Vedo l’orto, sento lo scorrere del Po, mi accorgo delle cataste di legna, mi affaccio oltre il cane attaccato a una lunga catena deterrente e vedo la vetta del Monviso innevata, mi rilasso nel verde, sento gli odori e gli umori del pastin, del forno, finanche della bottega, così placidamente organizzata, sulla coesione tra pane e biscotto, da avere quella sensualità francese che non può nascondere un filo di vanità… Aspetto che Davide arrivi con i suoi pani e con la sua gentilezza. Uno chassis da ingegnere, manifestato da una figura filiforme, perlata da un paio di occhiali precisi e timidi.
L’attesa mi riporta alle sue parole. Alle sue poche certezze e alle sue letture che riescono ancora a porlo di fronte a bivi. Il lievito madre è semplicemente il pane della settimana. Quello povero, quello della famiglia. E lì Davide non ha inventato e non ha dovuto cambiare nulla. La scelta delle farine è dettata dall’esigenza, senza fronzoli particolari, tranne che per una segale coltivata da un amico, di una fragranza contrastante ma netta (ma io credo che le Farine arriveranno…). Niente forni elettrici (che probabilmente darebbero una miglioria a livello di standard qualitativo ma che gli ruberebbero il fascino del crepitio del legno che brucia e che prosegue il sonno) ma solo forno a legna. Il resto è la sua solitudine di fare e togliere la brace, eliminare la cenere e lasciar decantare il pulviscolo. E se il pane si colora di bruciato… il fascino ha già rubato tutto il suo sapore…
Sci alpinismo, lunghe passeggiate e rapporto diretto con il suo silenzio. Quello che non lo ha mai disturbato e, soprattutto, non lo ha mai tradito. Così come la ricerca di una tradizione e di un passato.

Dal barbarià, il suo pane imbarbarito per mancanza di bianchezza (infatti, alla metà di farina bianca, che nel passato più rurale poteva venir meno, viene aggiunta una metà integrale, con una sopraffina aggiunta di noci), alle miscele di orzo, farro e segale, dal recupero del mais pignoletto, da un amico contadino, al cariton (la festa in tutta sua tracotanza e il rapporto di benessere con gli animali…), il pane della carità, seguito pedissequamente sulla ricetta di suo padre. Poi ci possono essere difetti nelle alveolature o nella lievitazione, crosta molto profumata di forno a legna e farine, in alcuni casi, non troppo pervasive, ma in tutti questi pani c’è uno sconfinato amore per la storia e per quella vocazione che è riuscita a trasformare nel suo mestiere. Con un’umiltà che non è più di questo mondo e che si trasmette alle mani dalle orrecchie che ascoltano, assimilano, prendono appunti e conoscono. Ha dalla sua la poesia dell’isolamento che non è mai diventato ribellismo sartriano… non ha mai avuto bisogno di una posa per esistere… e nemmeno di un padrone…

Riesco fortunatamente ad abbandonare il suo volto e la meraviglia di quell’”ora d’aria”, per concentrarmi sui suoi biscotti: a prescindere da gusti, tecniche produttive, livelli qualitativi, corsi specializzati ecc…, sono un grimaldello che ha mosso la mia reticenza verso… Qualcosa di strepitoso, in tutte le sue diramazioni. I batiaje (le paste di meliga), preparati storicamente per il giorno del battesimo, etereamente fatti con un Pignoletto da sballo, contrastano con la mia ritrosia verso il biscotto di granoturco: controllati e profumatissimi. Quelli con la scorza d’arancia nascosta nella morbidezza.
Degli strepitosi brutti e buoni (che si distaccano dalla tradizione, miscelando, nella ricetta, dei dettami del torrone e la poesia del suo racconto creativo: mix di bianco d’uova e zucchero miscelato sul fornello a gas, dentro pentola di rame, con un cucchiaio di legno sempre in movimento fino a coesione ultimata), di color marrone caramellizzazione. 
Infine gli zenzerini: la classicità della base sovrastrutturata con cannella, zenzero e nocciola. Siccome non posso dire il biscotto più buono della mia vita, perchè i puristi dell’assolutizzazione mi lapiderebbero in pubblica piazza (come han già fatto), dico i secondi. I primi non li ho ancora mangiati… 

E poi altri, tanti altri, ma il mio racconto mi ha riportato il gusto e il volto gentile di Davide, un panificatore che non ha bisogno di parole per narrare…

PANETTERIA GARZINO
FRAZIONE CALCINERE SUPERIORE, 35
PAESANA (CN)

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