Maestri e Allievi… Ezio Marinato

Cinto Caomaggiore. Cittadina salita agli onori delle cronache per nulla in particolare. Quasi dimenticata. Sul confine tra Veneto e Friuli, plasmata con pianura, mattoni e asfalto. Centro abitato nel mezzo di rotonde, strade statali e mete da raggiungere. Che sia il mare o che siano le città, Cinto Caomaggiore sta lì, placida, utile, forse un filo indolente. Eppure… eppure…
… in quella scuola, tra i discoli giovanotti dall’accento veneto e dalla presenza confortante, intensa e selvatica, sono cresciuti due compagni, uno con il futuro dentro il lievito, l’altro con il pulp delle celle traslitterato in quello televisivo: Ezio Marinato (il carisma di queste sfocate parole…) e Fabrizio Nonis (macellaio con il vezzo dell’apparizione e della televisione, affascinato dalla comunicazione e dai programmi di genere…)
Ecco. Tutto ciò, per Cinto Caomaggiore, è un bel po’. Ma cui prodest? I concittadini non credo che abbiano smesso di flirtare con la grande distribuzione o con la panetteria da “Pane fresco senza alcol etilico…”… Tuttavia potrebbe aver giovato al mio vocabolario…
Ezio si avvicina molto alla definizione di maestro, benchè privo di quell’idolatria così scontata, con quella grazia umile che lo porta ad aspettare mia moglie al di là della porta (mentre mia moglie chiaramente è in attesa esattamente al di qua…) e ad offrirci una tavola rotonda anacronistica dove iniziare la chiacchiera. Campione del mondo in casa dei francesi. Sei erano le categorie, sei sono state le vittorie. Lo accompagnava Simone Rodolfi. Consulente, panificatore, l’uomo giusto al momento giusto, “quello che tutte le madri vorrebbero per la propria madre” (cit.). Un sano trasmettitore di tranquillità e bonomia. Difficile pensarlo al di fuori dell’artigianato, a concorrere per un posto di lavoro, in giacca e cravatta a caccia di un collega da catechizzare. Ezio è un panificatore, anzi, più primordiale, è l’idea di quello che ti aspetti dal pane: quelle caratteristiche, che si trasformano in qualità e che danno al pane l’immagine della vita e della necessità, qualcosa di ancestrale e di primitivo. Ecco, Ezio non è uno sfruttatore di tempi e di modi, mette a proprio agio come naturalezza e non come maniera. Potrebbe fare altrimenti? Possibile, ma se fosse scaltro non farebbe pane, ma dolci… ahahaha…
Nell’estremizzazione, la sua capacità (e basta un semplice biscotto da mattina, uno di quelli da gettare nel latte per ritrovarselo in bocca, con la masticazione goffa dell’appena sveglio…) è caleidoscopica. Nell’eccellenza e nella bontà, nella sincerità (come la sua analisi verso l’importanza del lievito di birra in determinate produzioni…) e nella dogmaticità, finanche nell’umiltà, quella sincera, non boicottata dagli occhi.
Massimiliano Alajmo, quell’Alajmo, il Mozart dei fornelli, quello che ha preso la terza stella Michelin a ventotto anni, ha iniziato una collaborazione con Ezio.
-”Buongiorno Ezio, sono Massimiliano, avrei bisogno del suo pane per il ristorante di Venezia” (o qualcosa del genere)
-”Buongiorno Massimiliano, non vorrei farle fare troppa strada, la mando da un collega più vicino a Rubano” (scostante ma verosimile)…
Ecco. Massimiliano, recatosi dal panificatore “più vicino”, non ha trovato il suo bisogno e si è recato direttamente a Cinto.
Questa umiltà non può essere coazione e nemmeno paura, può sì essere un racconto ma con un finale sempre da deuteragonista. C’è stato bisogno di Riccardo Antoniolo, del racconto del pranzo alle Calandre vestiti da “panettonofili”, con Pediconi e Rinella, della critica al pane richiesta e, soprattutto (e proprio nelle orecchie aperte ai dissapori, va il grande merito di uno straordinario Chef…), della critica al pane compresa.
Giorno successivo. Laboratorio Esmach. Il Mucchio Selvaggio al lavoro. Arrivo di Alajmo che chiede a Ezio di reinsegnarli a fare il pane…
A Cinto Caomaggiore è dura, è molto dura… se non provi un’innocente deferenza verso la natura delle cose…
Non ho capito come Ezio è arrivato ad essere Ezio. So che c’era un panificio di famiglia, uno solito, di quelli che si trovano sia nei centri storici che sulle strade principali. Un padre gran lavoratore ma non particolarmente attento a benessere e gusto e una giovane età che non voleva perseguire diplomi, lauree e master ma aveva uno straordinario bisogno di mani. La pratica lo ha portato a fare qualche corso. A conoscere Giorilli, a confrontarsi con panificatori e a diventare uno straordinario lievitista. Ma l’inizio è stato un’antitetica ricerca della verità. Un’azienda, produttrice di lievitati, a mezz’ora di strada da Cinto, gli ha consegnato in mano il lievito ma non si è liberata dei segreti. Ezio così, i giorni dei panettoni, si faceva un’ora di strada per andare, prendere il lievito, tornare e lavorarlo. Il mantenimento era un albore di stanchezza. La stessa che lo ha fatto pensare. Quella strada era troppa e inutile. Doveva imparare il rinfresco. Partì con il lievito legato, nell’anti-tradizione busnelliana-zoiana e massariana, e fu un disastro. Il lievito si svegliava con il poster di Johnny Rotten in camera e inseguiva l’ideale della ribellione. Instradarlo e trovare la temperatura: un miraggio. Panettoni partiti per la tangente, lievitati nella maniera dell’autorialità… intrasmettibili…
Ora, a ven’anni di distanza (forse più), il lievito è il suo gioco, non esiste acqua, non esiste legatura, il controllo è l’epitome della sua panificazione. Senza fronzoli, con quell’esperienza che non riluce nell’ambizione. Ezio, non solo ha imparato, senza un reale maestro che lo instradasse, ma ha fatto il solco e se lo sta portando a tracolla…  molta nebbia o segreto o dimenticanza o artificio… e molta magia…

… poi un giorno è arrivato il pane (oltre uno strepitoso pan carrè)… e tutto mi si è schiarito (il panfrutto aveva una lievitazione perfetta ma non rispondeva al mio agio gustativo, stessa cosa per i grissini, fatti a regola d’arte ma molto lontani dalla mia pacificazione…)… al primo taglio del pan polenta (lavorato con granturco bianco), il mio sorriso si è aperto… al primo morso, è diventata passione… qualcosa di straordinario: crosta non troppo croccante, morbidezza infinita, un pane con molta acqua (come da sua predilezione…), etereo e leggerissimo. Bianco. Uno di quei pani che potresti finire, se non l’avessi finito veramente… E così i suoi lavori sul grano duro di Filippo Drago, sui cereali antichi, sul semplice grano tenero, sulla segale e sul grano spezzato. Sono tutti pani che, oltre ad una sapienza assoluta, rivelano bontà anche su farine non particolarmente profumate. Controllo dell’acidità (sulla segale abbastanza spinta, ma assolutamente calibrata…), poco aceto e molta neutralità… un pane da accompagnamento e un pane da solitudine, così come il suo unico e monocratico padrone… un signore che ridona all’umiltà una veste vintage e un foulard di Hermes…

PANIFICIO MARINATO
VIA ROMA, 134
CINTO CAOMAGGIORE (VE)

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