Pasticceria Morlacchi: la bellezza del collettivo… Sergio Soldo, Gianni Morlacchi e Dario Soldo

Zanica. Pochi kilometri a sud di Bergamo. La direttrice è quella di Crema, gli odori sono quelli tipici delle zone pre-industriali. In lontananza, qualche roggia va ad evidenziare l’esistenza di una campagna. Case basse, piccole aziende e cancelletti a guglia rimandano impressioni di modernità e terrore. Nulla distoglie lo sguardo da segnaletica e strisce pedonali. Nemmeno i bambini all’uscita da scuola generano empatia o tenerezza. Una strada, quattro case, qualche migliaio di abitanti e un abisso di rimorsi… quelli che sono morti, quelli che sono rimasti nascosti dietro catodici programmi Rai delle sei di sera e quelli che si sono espletati nelle gambe delle commesse o delle postine. È il solito, e qui so di non essere temerario, paese antidiluviano e autolesionista, dove le professioni diventano la chiacchiera comune e la definizione del vicino di casa…

Condominio ad angolo, clientela in decadenza da crisi, scarpe laccate e acconciatura antipioggia, immagine patinata all’interno di un paese sconnesso. Stupore. Laboratorio a vista in assoluto fermento, azzimato e penetrante. Nelle forme, negli aromi e nella vista. Coraggio e futuro in un semplice, quanto salvfico, concetto di bottega. Il cliente è invitato ad entrare, assaggiare e finanche empatizzare con un mestiere artigianale che non ha voce se non nel parossismo creativo. Il processo, come in ogni struttura dialettica, non affascina né ammorba. Ma può stimolare presenti e fantasticare futuri…

La comunicazione del locale è Sergio Soldo, degagè, iconoclasta e assolutamente in contraddizione con i sancta sanctorum. Appena prima del suo arrivo, mi soffermo sulla scelta delle materie prime e delle scaffalature. Josè Noè per la nocciola, Gianni Frasi per pepe e caffè, qualcosa di Giacomo Santoleri e alcuni classici da bottega gastronomica consunta e markettara. Sergio è stimolato nella ricerca, il suo ruolo di credenziere non lo limita al laboratorio, non lo tiene chiuso nelle valli. Rimane molto al di qua della presunzione e molto centrato sulle reali potenzialità sue e della pasticceria. Che mi è parsa assolutamente realista, sostenibile e adeguata alla possibilità di crisi e clientela. La chiacchiera si disperde nell’accoglienza, si chiama fuori dall’ipotetico esame accademico e sciorina i nomi delle sue stime. Da Assenza a Besuschio, passando per Marco Rinella e Gianluca Fusto, i nomi sono quelli dei dissidenti (che in alcuni casi sono i più fedeli alla linea della Pravda…), quelli che non si sono “sottomessi” al dogma massariano dell’accademico sentire. Quello di Hausbrandt, Della Giovanna, Illy, Domori o Agrimontana. Ancorchè, rigirando la frittata, Valrhona o Quaglia non assomigliano molto alla certificazione dell’esistenzialismo gastronomico. La cura è sempre una corrente da 40 milioni di euro di fatturato (quando va male) miscelata al mito dell’unicità.

Ma Sergio è veramente iconoclasta e non solo nelle forme e negli atti di civiltà (i grillini, le avanguardie, il femminismo, gli hipster e tutti quelli che hanno avuto bisogno di quattro mura per sentirsi ribelli…) ma soprattutto nei contenuti. La pulizia diventa il bidet dei beatnik degli anni ’50. Quel benpensantismo rivoluzionario e diretto.

Il laboratorio ha una costrizione: le vetrine. Di sera, di giorno e di notte. La presenza è sempre vittima del passaggio. Quindi “l’ordine e la disciplina” campeggiano su tutto. Dario (che dalla ristorazione viene e che dalla ristorazione non se n’è mai andato… al Passo della Presolana mantiene un ristorante-pizzeria…), bonario, antitetico e manovale-trait-d’union di creatività (suo fratello) e metodo (l’ultimo dei Morlacchi), si occupa del salato (questa è una delle grosse differenze con altre grandi pasticcerie italiane… lavoro su gusti e colori mediterranei… dal basilico al pomodoro fino al parmigiano… tartare, prosciutto crudo e pane a lievito madre – farina Petra, ottima crosta, buono sviluppo delle alveolature, meno degli odori che rilasciano troppo lievito e acidità – con cui coccolano la brigata, polline e risotto e discrete pizze ad impasto diretto e lievito di birra) e in parte dei lievitati. Gianni, capelli e baffi brizzolati-nascondi età, parlata sicura, passato a metà strada tra latteria e pasticceria, fidandosi di non avere l’età che ha (assolutamente sorprendente…) e dando vita all’intuizione di un collettivo bergamasco (a cui si aggiungono moglie e cognata…) molto al di là del culto della personalità, si occupa (principalmente) del torrone e dei lievitati. Sergio, il credenziere, forse l’artista, sicuramente il cioccolatiere, congiunge e combina le caratteristiche degli altri, portandole fuori, in caffetteria e in pasticceria.

Il torrone, il motivo che mi ha spinto fin lì, non lo capisco fino in fondo. Morbido, forse troppo, creato con la nuova torroniera tutta in acciaio, mandorle (tostate difformemente) e una punta di pistacchi in quello classico, miele d’acacia Thun, zucchero e vaniglia. Non particolarmente aromatico, sia il miele sia la vaniglia tendono a spegnersi presto, masticabile e fine. Bocca pulita, bilanciatura zuccherina precisa, forse un filo piatto, packaging estremamente raffinato. La versione speziata, con una mistura di sette spezie, mandorle, pinoli, noci, nocciole e pistacchi è cervellotica, ha quella creatività da chef alla ricerca del coupe de theatre. Equilibrata, forse un po’ troppo zenzero, soprattutto nel finale.

I motivi che non mi hanno spinto fin lì son quelli che mi hanno realmente stupito e un filo invaghito. Perfezione d’intenti, caffè di Frasi (Haiti Komet estratto dalla moglie di Sergio, Moira, senza ambizione ma con molta cura verso le voluttà clientelari…), percepito, annusato e assolutamente delicato, la scelta di materie prime coraggiose, il laboratorio, fascinoso nella sua geometria (grande grande plauso), il pranzo per i dipendenti (i dettagli sono sempre quelli che fanno la differenza), l’estetica femminea senza utero ma con molto equilibrio, i lievitati (una colomba ben alveolata, con problemi di farine – come da ammissione – che hanno portato ad un’umidità fuoriuscita in parte sulla ghiacchia, ben sviluppata, coi contrasti grassi appena accennati sia negli aromi – un filo troppo la persistenza di mandorla amara – , che nel colore che nella digestione…), il salato e la proposta per il pranzo, la pasticceria fresca (niente colpi di testa, molti classici nelle vetrine sempre piene, un grande zabaione, mistura tra marsala e vino bianco, molto più compatto dell’ortodossia dolciaria, bignè strepitosi, così come le creme a corredare dolci e certosine creazioni…) e secca (un biscotto al grano saraceno perfetto) e, in ultimo, la propensione alla coesione che, altrove, si è mostrata e si mostra quasi sempre come motivo di corrosione. L’ego del pasticciere è un’anima frastagliata fatta di molte voci. Oltre “finalmente” non mi sovviene altro…

 

PASTICCERIA MORLACCHI

VIA SERIO 1

ZANICA (BG)

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