“Nessuno spreme più limoni”. Da Cerda al mondo… Antonio Cappadonia

E’ un pomeriggio di agosto del 2009, le due del pomeriggio di un sole siciliano che ti mette addosso solo il pigiama e la voglia di non muoversi. Il mio arrivo a Cerda è accompagnato dal canto delle cicale e dal sole che scioglie l’asfalto sotto la mia vista.
Il far west siciliano e la porta d’ingresso delle Madonie. Un biglietto da visita terribile (edilizia color apatia). La Targa Florio come lontano ricordo e tutt’intorno coltivazioni di carciofo e limone. Aspra e spinosa. Come a pregiudicare il rapporto con il visitatore.
Scovo un piccolo bar, non bello, non intrigante, con un bancone dei gelati poco suadente e un ragazzo alle sue spalle che avrebbe sicuramente preferito essere al mare. Chiedo del Maestro Cappadonia. Ma c’è da aspettare.

Allora mi faccio preparare la solita antitetica coppetta limone/pistacchio, test unico e ineccepibile, per “provare” il gelatiere. I due gusti più probanti: uno per la sua complessità e uno per la sua semplicità. Il primo assaggio di limone cerdese è un capogiro. Mi fermo un attimo e il mio mondo finisce lì. Mi rimane in bocca l’idea platonica di limone, quell’unico e rarissimo ensemble di profumo e delicatezza. 
Cinque minuti. Riesco a riprendermi. Il pistacchio è stratosferico. La materia prima è frutto di un’enorme conoscenza del territorio e della storia del gelato che gli permettono di fare delle scelte coraggiose: niente frutta secca ma pasta di pistacchio. Certificata (ma tutti in Italia ne certificano la provenienza. Bronte, a sentir alcuni artigiani, è grossa due volte New York, e soddisfa tutti. Bah…), pagata ottanta euro al chilo (in ascesa…) e di un colore verde smeraldo. Ripeto la prima impressione: stratosferico. 

Di lì a dieci minuti il Maestro appare da dietro il velo. Gli stringo la mano. Ed è amore a prima vista. Mi racconta la sua storia (tra la gelateria, la giurisprudenza e la passione…), mi fa assaggiare alcuni dei suoi gusti, mi omaggia di una vaschetta di gelato e mi stringe la mano con la promessa di rivederci.
E l’ho rivisto almeno trenta volte (ed ho aspettato almeno trenta volte….), negli ultimi due anni.

Mi delizia sempre di gusti differenti ed emozioni cangianti: manna di Castelbuono (che, chiaramente, non proviene solo da Castelbuono ma da buona parte delle Madonie, ma Slow Food doveva farne un presidio e allora sotto con le definizioni…), dolce e suadente, nocciola trilobata gentile delle langhe, poco tostata, dall’aroma legnoso e lontano, gelsi di monreale, silenziosi e perfetti, cantalupo di agrigento e fragola di Marsala, antichi e terrosi, tiramisù, nella composizione di marsala invecchiato 30 anni in botti di rovere, uovo (sono “paradisiato”…) e un’aroma di caffè, grandioso, mandorla (a volte di Noto, a volte pugliese), sempre equilibrata, senza essenza, bilanciata egregiamente e cannella, alchimistica nella sua creazione, memorabile nel gusto. E molti altri, tra cui il rinomato carciofo… geniale per la storia che lo accompagna (la creazione di un macchinario ad esso dedicato che permette di estrarre direttamente la cinarina che poi viene versata nel succo di limone…) ma mai (lacrime sgorganti…) assaggiato. “Un gelato da meditazione”.

Antonio va fiero di ogni festival che organizza (Sherbeth a Cefalù ndr…), di ogni gusto nuovo che prepara, del gelato fatto con la neve (antica ed estiva usanza madonita…), di ogni persona che si inoltra fino a Cerda per scoprirlo e di ogni intervista. E’ sempre stanco, di quella stanchezza sorridente data solo dalla vocazione, è sempre impegnato, troppo, e, come tutti i più grandi (limite o assolutezza?), è sempre solo nel suo lavoro, senza un reale epigone, con quella mordace voglia di conoscere che solo a guardarlo ti sfiora le mani.
Ti parla, senza problemi, dei suoi maestri: Carlo Pozzi (la gelateria a Milano che porta il suo nome, ma non più gestita da lui, è in rovina assoluta…) e Luca Caviezel (ex grande gelatiere di Catania, diventato ideologo e preconizzatore…), che gli hanno insegnato le basi, i bilanciamenti (e qui siamo un po’ tutti debitori dell’ice cream industriale e, per giunta, americano…), quali semilavorati utilizzare e quali no, i migliori addensanti (dalla carruba al guar…). Quello che non gli hanno insegnato (e Dio ci scampi dalla sua ferma razionalizzazione e conseguente insegnamento) è il gusto, quella sensazione, che punta dritto all’essere, che provo ogni volta che assaggio un suo gelato. I gelsi (come i girasoli di Van Gogh erano, nelle righe di Artaud, l’immagine, finanche l’idea, del Girasole, che, traslata dal campo al dipinto su tela, diventa più reale del reale) non sono più l’immagine di un albero gonfio, di dita violacee e di strade sporche, ma diventano il gelato di gelso di Cappadonia.
Tutto ciò ha un’unica definizione: meraviglia, intesa nell’unica forma in cui può essere intesa, quella del ricordo. Il gelato di Cappadonia rimanda al passato, ad un’origine, ad una tradizione mai vissuta, a qualcosa di ancestrale e di viscerale. E’ un rapporto istintivo, ti rende felice, ti riporta bambino col cono di gelato sempre sciolto e la bocca sempre sporca…

GELATERIA CAPPADONIA
VIA ROMA, 153
CERDA (PA) IN TRANSIZIONE VERSO ALTRI LIDI

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