Normandia


Sempre Luglio. Sempre vacche al pascolo. La Normandia è impossibile da scrivere e ancora più impossibile da descrivere. Ha tante facce. Forse troppe. Vive nel terrore di essere dimenticata e dispensa memoria un po’ ovunque. Il meglio si trova nel rilassamento. In alcuni palazzi, in alcune scogliere e in alcune Ferme si percepisce ancora quel tempo bloccato dalle tele impressioniste e dall’anima di un popolo che ha invaso l’Europa, si è ritratto, ha costruito magnificenza e grandiosità, ed infine è stato invaso. Così la distruzione è diventata bellezza e la marea si è ritirata, scoprendo capolavori, trasformati, mio malgrado, in parchi divertimento.

Prima dell’arrivo, la Piccardia. Un tracciato quasi indelebile, eccezion fatta per Chantilly. Un castello, senza giudizio ma assolutamente straordinario e la storia delle latterie di corte, di Francois Vatel e della sua “invenzione (faux ?)” della panna montata insieme allo zucchero. Le mucche locali facevano un prodotto così grasso da stimolare fantasie e possibilità.

L’ingresso in Normandia, per la porta di Vernon-Giverny, spalanca, da un lato, le creazioni di un pasticcere, Reynald Petit, scultoreo, cioccolatoso, poco tradizionale, un filo oltre nell’estro e nel gusto, ma nuovo senza quei contrasti obbligati da corso alla scuola alberghiera, dall’altro lato, i giardini che sconvolsero Monet e gran parte degli Istituti d’arte contemporanei. Ninfee e fiori. Tanto finti quanto icastici. Se si sospende l’incredulità per un momento, si riesce a sentire il cherosene che scoppia nelle lampade a petrolio.

Cuscino a Rouen dove un graticcio è diventato una città, con le sue lacune, con le sue calure estive, con i suoi pericoli, con le sue stazioni che, non trasformandosi in vasi da fiori, rimangono stazioni, ma principalmente con i suoi squarci medievali, i suoi mercati coperti e quella cattedrale rubata dall’impressione pittorica in quell’ora, tra tramonto e crepuscolo, ormai resa eterna. Gastronomicamente nulla da segnalare, in un passaggio tra la domenica sera, la waste land dei cercatori, e il lunedì mattina, dove in un’immagine emotiva di Iosseliani, le saracinesche rimangono blindate e repellenti alla necessità da baguette e croissant di quart’ordine.

Il mare è un richiamo troppo intenso. La costa d’Alabastro è la scusa, la boulangerie di Jean Paul e Guillaume Martin il reale motivo. La circospezione dell’artigiano è ritratta in quei pani, un filo nascosti, assolutamente profondi, dai sapori appena accennati e tecnicamente rifiniti. Le farine, biologiche, sono un lavoro da portare più a fondo, nel naso e nelle terre circostanti, ma la mia necessità è altrove. Ho poche compulsioni. Una è certamente per il croissant sfogliato alla francese. Solo burro, senza quelle uova italiche flaccide e inconsistenti. Niente lievito misto, solo madre. Una pulsione fatta di calore, di un carico di burro, di una sfogliatura croccante e friabile, di un’assenza di reflussi e di una bontà senza controllo. Tra il grand guignol e l’ascesi. Mi hanno tirato, letteralmente, via.

I paesi sul mare fino ad Etretat non hanno una conformazione turistica, sono dei borghi belle epoque, assolutamente floridi, con il fronzolo di avere una spiaggia. Prima di rimanere folgorato dalla proboscide d’elefante delle falesie d’Aval, mi trovo bordato da un campo di grano Chevron e da un altro di avena. Direzione: Ferme des Sapins. Anatre in lontananza e due coniugi oltre la mezz’età con le mani nel foie gras. Varie lavorazioni, vari prezzi. Entier d’anatra. Assoluto, dolce, composto, untuoso e avvolgente. Il grasso succulento è seducente, ancorché con un limite ben definito dalla quantità.

La visione delle scogliere non ha un aggravio nella presenza del turista. È tutto abbastanza sonnolento. Il vento toglie l’afa e mette i brividi così come i gabbiani. Quel mare cristallino e quella conformazione da spiaggia ionica creano un immaginario senza necessità d’espletamento.

Il viaggio fino a Le Havre, dove la smania di raccogliere fragole, mi costringe a diversi giorni di mummificazione da orticaria, è un continuo di vacche al pascolo e balle di fieno. La città è sconsigliata, io me ne innamoro. Cattedrale stalinista-barocca, elevata a cento metri d’altezza, con croce valida sia per i fedeli, sia per i marinai. I bombardamenti di fine Guerra hanno portato bisogni e idee fuori dal solco del graticcio e del ciottolato. L’interno è psichedelico, sembra un cinema parigino anni ’60 con la stroboscopia delle vetrate. Assoluto e kitsch. La città puzza di fatica, di chimica e di ponti futuristici. Ha quel portuale ben delineato dai docks e dalle spiagge cittadine, ha i volti industriali che nel mio dizionario trovano definizione alla parola fascino. Senza tempo. Così fuggo per non amare e mi rigetto nei paesi fighetti del Calvados, quelli che hanno sostituito i negozi alla spiaggia. Al terzo, decidiamo di rientrare verso l’interno e di andare a formaggi.

Prima tappa: Pont l’Eveque, abbandonato dai casari e rimasto sulla carta solo con il nome di uno dei formaggi più famosi di Francia. Così decidiamo di penetrare oltre nel Calvados. Vacche al pascolo e piante di mele. Le case iniziano a farsi rade e ad apparire nascoste alle strade. A Livarot, la Fromagerie Graindorge ha preso in mano tutta la gestione dei formaggi a pasta molle ricoperti dal pennicilium candidum. Mi soffermo sul Coulommiers, antenato del brie, estremamente mantecato nella stagionatura e dagli sviluppi interessanti, e sul Livarot crudo, avvolto in fettuccie di canna, crosta lavata, estremamente saporito, con quel francese che toglie un po’ la riconoscibilità del pascolo. Un caseificio con il rispetto degli allevatori. Lo apprendo in seguito, ma la ricerca era già troppo avanti e l’attesa spasmodica…

Monsieur Francois Durand e la sua assenza…

Paese minuscolo di Camembert. Anime trapassate e anime erranti sotto forma di vacche. Il resto è l’assolutismo abbastanza illuminato della President. Dopo una decina di curve, che confondono l’orientamento, la Fromagerie Durand accoglie i viandanti. Ettari di pascolo, quattrocento forme al giorno, uno dei rarissimi fermier che ancora resiste con il suo latte crudo e le sue bestie. Il formaggio è assoluto, con tutti i retrogusti, così appiattiti dalla fama, in risalto: arrivano le cozze, i fiori, la mantecatura della pasta mai molliccia, l’umido della muffa e la grande decisione di un prodotto e del suo senso. Tutto questo in poco più di un mese di stagionatura.

La notte si avvicina e la mia meta per il giorno dopo è lontana. Così arrivo fino a Vire, in una chambre d’hotes di raffinata eleganza quasi intorpidita. Il motivo della mattina è l’andouille, un salume d’interiora suine che abbisogna di tempo per l’assuefazione: Christian Citrè, affumicatura leggera, compattezza e sapori crescenti con il tempo. Nessun peana ma molto interesse.

Il saluto segue di poco l’immagine normanna finale e più famosa: Mont Saint Michel. Una volta epurato, ripulito e decontestualizzato, potrebbe essere il posto più fascinoso del mondo, con le sue maree e la nebbia a ricoprire il tutto di un afflato mistico, ma, vissuto in una mattina di caotico luglio, ha tutti gli stilemi olfattivi e visivi di Gardaland: orde di turisti, pullman ovunque, souvenir, coni gelati dall’aspetto necrotico e una muraglia umana in fila in salita… Manca solo Prezzemolo…

Normandia, terra di contrasti e addii… il futuro è bretone…e di una bellezza senza scampo…

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