Profumo di aristocrazia… Melchiorre Mangiaracina

Sambuca di Sicilia è un posto sonnolento. Ma molto diverso dal solito. È stranamente bello, ha il fascino della lontananza, di quello sguardo che non impone ma allarga, che regala uno stralunato paesaggio di vigneti, laghi improvvisati, roccia viva con declivi brulli e bruciati, ma soprattutto uno di quei paesi arrampicati. Straordinari nei profumi, nei colori, in quelle vie che si attorcigliano su se stesse, regalando portoni moreschi e sedie impagliate con anziani ritirati nella propria saggezza. Sambuca è un dono ancora incartato. È passato attraverso il terremoto del Belice, attraverso l’abbandono (che è un’istantanea sbiadita di generazioni dilapidate dall’inerzia…) e attraverso una ricostruzione triviale. Attraverso tutti questi mutamenti, è rimasta intatto quello stupore sotteso chiamato fascino. Tra facciate saracene e chiese da togliere il fiato, Sambuca riecheggia racconti ancestrali e tradizioni ad un passo dal tradimento.
Qualche centinaia di metri sopra il paese, troneggia senza superbia la Masseria Ruvettu. Uno di quei posti fuori dall’esserci, dove il ritorno è l’unica unità di misura possibile. E io non posso che cascarci.
All’interno della stessa, opera la famiglia Mangiaracina. Un cognome icastico, estremamente evocativo, per un padre, un figlio e una figlia oltremodo artigiani nella loro maniera di intendere lo scorrere del tempo e delle cose.
La casa ha i finimenti dell’attenzione. L’altezza dei soffitti, il recupero delle vecchie maioliche che andavano a corredare i pavimenti di fine ‘800, la cucina in muratura con le pentole di rame a imperitura memoria, il forno a legna e il pentolone per la salsa, le scalinate lisce e un filo pericolose, le volte riverse sui libri letti e sui pensieri da lume di candela. Il tutto accompagnato dalla nobiltà e dalla lamentazione. Tratti tipici di un modo distaccato d’intendere l’ordine e la necessità.
Melchiorre è il figlio, il presente e il futuro dell’azienda. Colto e cadenzato, con quella tonalità di affermazione che non passa inosservata. Si alterna, con deferenza, ai racconti di suo padre. Gambe accavallate, tenuta da brughiera, occhio vivido come raramente capita sulla via. Geometra in pensione. Viaggiatore e osservatore. Il suo dialogo non ha la saccenza fastidiosa, a volte troppo siciliana, della bocca. I suoi tempi non sono quelli serrati dell’assenza da interlocutore. Il suo orecchio spazia nella comprensione e lo stile è quello del crepuscolo che sta iniziando a colorare il cielo. Quasi sofferto. La storia della sua famiglia è passata attraverso l’agricoltura. Cereali antichi, russello e tumminia. Il suo racconto è l’immagine definita di quel luogo, con quel vento e quel sole i cui filamenti rischiarano e poi abbandonano, di quegli alberi, di quegli attrezzi antichi e di quei muri in pietra viva adombranti quelle panchine definite in un quadrato di conversazione estiva. Melchiorre, ancorchè in possesso di quelle parole, lascia a suo padre un proscenio timido. Senza sovrapposizioni di voci, senza stridii.
Il motivo che mi ha spinto fin lì è la Vastedda del Belice. Melchiorre mi conferma che il nome non deriva da guasta (benchè, nel passato, questo tipo di lavorazione venisse fatta sui pecorini freschi con problemi di fermentazione) ma dalla forma ovale del formaggio. Presidi e consorzi si accompagnano alle ombre prosaiche della commercializzazione.
Ma qui si resiste. La rarità è quella di una pasta filata (non siamo molto distanti dalla definizione di mozzarella di pecora…) a latte ovino. Sfogliata come è giusto che sia. Latte crudo lavorato a trentasei gradi. Pressata. Filatura con acqua intorno ai cento gradi. Questa è la normalità. Ma qui il ritorno alle origini è cadenzato da un disciplinare: spino in legno e pentole in rame. Con buona pace degli organismi di controllo.

Il prodotto finale si sviluppa nel corso del tempo e degli assaggi. Quello che mediamente arriva sulle tavole è un formaggio sfogliato, con un bianco tendente all’avorio e dai sapori moderati. L’erba è ricercata ma la pasta, alla lunga, diventa molto compatta, compromettendo la sua origine. 

Mangiata la sera stessa della lavorazione, è qualcosa di assolutamente raro: un bouquet di afrori che spaziano dall’erba al calore del selvatico, avvolgente alla masticazione che prende i buchi di fermentazione e li costringe a rilasciare quel latte, sì grasso, ma nello stesso tempo dal sapore inestimabile. 

Qualcosa che resiste (e chissà ancora per quanto, dato che Melchiorre sta flirtando con la possibilità di mollare tutto, stretto nella morsa di tasse, controlli, difficoltà nel reperire il personale e abbandono del gusto, lo stesso che sta cercando di recuperare nel rapporto con i bambini e nel suo ruolo di fattore didattico… forse l’unico miraggio salvifico che ancora gli trasmette la gioia di una professione…) all’urbanizzazione del sapore. Con una famiglia, una tavola imbandita, un bicchiere di vino e un’attenzione che non può prescindere dalla passione e dalla cultura.
Gli occhi di Melchiorre diventano meno attenti, quasi lucidi, iniziano a rilasciare confidenza. Si abbandona ad un albero di mandorlo dall’altezza sconsiderata, si lascia pervadere dall’orizzonte che continua ad emozionarlo, raccontando, con questa sua maniera realistica di rapportarsi con il mondo, la sua solitudine in quell’eremo di una Sicilia che esiste ormai solo nei volti…

MASSARIA RUVETTU
LOCALITA’ GALLUZZO
SAMBUCA DI SICILIA (AG)

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