Quel fascino polveroso, un po’ francese e un po’ contadino. Fabio e Luca Grasselli

Stagno Lombardo. Pochi kilometri da Cremona. Un cartello che segnala il biologico e che apre un mondo di stanze, recinti, cantine, celle di stagionatura, vacche brune e vacche bianche. Spazi ampi, con quella decadenza che richiama il radical chic, allontanando il pomposo e il necessario.
Scorgo il sig. Grasselli dalla barba. Il telefono ha continuato a squillare per giorni, senza che nessuno rispondesse. Gli affanni quotidiani sembrano lontani anni luce, quello che vedo è una tavolata, una bottiglia di ribolla di Josko Gravner, un paio di birre e tre o quattro sguardi tra l’aristocratico e lo scrutatore. Mi avvicino comunque, anche se non mi sento propriamente atteso e nemmeno particolarmente verboso. Gli sguardi che incrocio non domandano e non almanaccano sul perchè, sono desueti nella loro consuetudine. Il mio viso li annoia probabilmente. Occhiali e barba già visti. Assomiglia ad uno dei tanti che si è presentato a corte, con doni, trait d’union e “sa chi mi ha parlato di lei?”. Ed effettivamente la colpa è mia. Ci provo con Silvio Pistone, con Michele Valotti e con Alberto Lazzari. Nulla. Il sig. Grasselli, occhi vividi, sandalo birkenstock, barba sempre più folta, mi passa, con disinvoltura, a suo figlio Fabio. Se ho voglia di chiacchierare, lui è la vittima designata.
Ci provo anche qui, attraverso trascorsi comuni. La filosofia, qualche amicizia trovata per caso e un’età più facile da scalfire. “Vi faccio fare un giro”. E così ci incamminiamo.
Ironico, fino al limite del sarcasmo, le mezze parole e le frasi di circostanza albergano altrove. Mi mostra le vacche. Brune Alpine e Bianche Valpadane. Erano i primi anni ’90 quando è nato l’agriturismo, erano i lembi degli anni ’90 quando hanno iniziato a produrre i primi formaggi in biologico. Senza bisogni, con la noncuranza regalata dalla facilità del gesto. Che nell’albagia di una marcata differenza con il mondo contadino, ci rientra attraverso la porta della cultura e della bellezza, quella che spalanca al mondo, prendendo la tradizione, ovvero la nomenclatura da applicare ai formaggi (mozzarella, scamorza, fontal, taleggio, camembert…), e innestandogli la purezza della libertà e del latte crudo. E quando Luca mi spalanca le porte del caseificio, saltano subito agli occhi le enormi differenze con tutto quello che si porta dietro il concetto di pianura padana, in termini di nebbia, anonimato, discrezione, vecchiaia e simbolismo religioso.
Qui tutto è bianco e tutto è mescolato. Una miscellanea di razze, genti, tradizioni, lingue e percorsi, racchiusa all’interno delle forme in cui si manifesta il latte. Dalla Francia alla Campania, dalla Valle d’Aosta alle montagne lombarde. Ogni tanto fa capolino il “mungiture”. Poi c’è un ragazzo francese che si sta occupando (o si occuperà… la mia comprensione non è stata fulgida come il mio sguardo…) di un “piccolo” orto: circa un ettaro. Alla fine rimane la famiglia: sua madre con sua zia, al negozio da poco aperto a Cremona, lui e suo padre in caseificazione e trasformazione (il padre anche in casalinga panificazione con i crismi della naturalità, dal lievito alla farina), e la sua futura moglie alla gestione dell’asilo da poco aperto (tra fragranze e letame, giochi e insegnamenti, fiori e frutti, mungitura e storia…)
E qualche estemporanea presenza, tipo un norcino che viene a lavorare le More Romagnole e due amici che producono la birra (non ha un nome – quindi la chiamerò Martina, per facilità di digressione – ha un’impostazione pale ale, di ascendenza Sierra Nevada e Sam Calagione, forte luppolatura e amarezza sono i punti fermi, ma qualche nota piccante, in quelle da me provate, mi ha riportato alla mente l’idea di un risotto con salsiccia e ho fatto bingo… detto con la cadenza di Elliott Gould in un film di Robert Altman… Credenza mia: i pentoloni, a breve, avranno etichette e futuro…).
Siamo, e qui lo dico con una recuperata serenità, molto prossimi all’autarchia. L’odore di umidità, di affreschi mantenuti sotto una patina di ragnatela e poesia, di scale appena scoperte, di soffitti alti sei metri e lampadari arrossati dallo scorrere del tempo, mi conduce all’interno delle cantine di stagionatura. Il fascino rigoglioso dei formaggi appoggiati sulle assi e dei salami pendenti, mi colpisce almeno quanto la facciata del castello che si espone sul retro, aprendo all’orto, al prossimo restauro e a quella decadenza che s’immagina sempre con una maglietta a righe orizzontali, i pantaloni raffazzonati, il baffo ispido sotto il cappello da gondoliere, appena uscita da una trattoria romanzata da Eugene Dabit. Silenziosa e molto lontana. Una belle epoque senza maschere e senza suicidi. Ecco la forza di un racconto…
Alla fine di tutto, rimangono solo i formaggi. Che sono molto più di una descrizione e poco di meno di una vocazione. Non è un lavoro, ma un modo slavato di mostrare la propria personalità. Tra la goliardia e la degnazione. I loro formaggi sventolano vari gonfaloni e modi di essere, ma hanno un filo rosso che li conduce fino al palato: sono veramente buoni. Ma di quella verità che non ti aspetti, quella senza suadenza ma con una sincerità assolutamente profonda.

Cagliata acida vaccina: qui siamo a livelli altissimi. Di tecnica casearia, di conservazione e di palatabilità. Qualcosa di rarissimo a queste latitudini. Perfetto controllo dell’acidità. La dolcezza del latte scompare da subito, lasciando spazio ad un gusto amaro e profondamente verde: erba, fieno, finanche miele. Qualcosa del pannerone, con quell’anidride carbonica ad indirizzare il gusto, e qualcosa di tipicamente francese. Desueto e straordinario.

La mozzarella e la ricotta sono profonde, ma mascherate bene da prodotti consueti: la prima, rigorosamente a latte crudo (un’apparizione nel panorama caseario del sud… figurarsi in quello del nord), ha una meravigliosa fragranza di pascolo e una consistenza compatta, poco sfogliata, con un controllo di sapidità e gusto di una maestria eccezionale. Strepitosa. La seconda, incartata come fosse una caramella, è densa, compatta, poco aromatica al naso, ma con profondi sapori di fieno e di erba che corroborano la dolcezza trovata al palato.

Fabio e Luca passano da un camembert (pasta molle a crosta fiorita, di chiara derivazione normanna, odore molto forte e naturale sapore di cozze… un mondo a parte) ad un provolone (che ricorda qualche lavorazione di Gregorio Rotolo), stagionato un paio di anni, che è meglio non scenda sotto il Rubicone… i volti inizierebbero a chiazzarsi di rosso e gli occhi ad guardare le deiezioni dei cani: controllo della salatura e dolcezza… caratteristiche distanti…

… e terminano con un fontal (o fontina), pedissequo, ma comunque interessante e profumato, e con un latteria invecchiato più di un anno, con ricordi di asiago e con gradazioni di giallo da formai de mut. 

Il sig. Grasselli è un grande dissimulatore. Coglie tutto, apprende e mette in opera. Luca lo segue. Mettono una barriera dialettica, ma hanno l’umiltà di riconoscere. Questa cosa tende a renderli più vicini di quanto vorrebbero… e questo è un bene…
…nella Pianura Padana, degli allevamenti intensivi e dei guard rail, brilla fioca una lucciola pasoliniana…

LAGOSCURO
VIA GIACOMO PAGLIARI, 54
STAGNO LOMBARDO (CR)

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