Quella Chianina che non rimane avvolta nel leggendario… Sergio Falaschi

San Miniato. Accompagnato dalla fretta di una domenica in cui l’orologio è stato inesorabilmente spostato un’ora in avanti e in cui sono palesemente in ritardo, manifesto la mia presenza all’interno della macelleria alle 13.00 di una primavera assolata.
La moglie prova a fargli notare che a Le Colombaie ci attendono e che magari, con il tatto di un rapporto fondato sul rispetto, sarebbe meglio iniziare a procedere. 
Sergio capisce ma non può fare a meno di un aperitivo. Alla sua maniera. Pulp.
Mi porta all’interno della cella di frollatura dove sono appese le mezzene di chianina e le cosce di cinta o di suino grigio e inizia a farmi toccare. Asciutte. Non perdono nulla. Anteriori e posteriori, prosciutti, pancette e spalle crude, ogni pezzo emana un aroma antico che si sviluppa soprattutto nel ricordo lontano di una fama, di nomi molto abusati che, però, riescono concretamente a rientrare dalla porta dell’artigianato.
Sergio accarezza, apre celle, mostra pezzi di carne, intercala il suo linguaggio, attraverso rassicuranti ripetizioni che mantengono l’attenzione sul prodotto. Non mostra se stesso, i suoi titoli, i suoi riconoscimenti e le sue spericolate fantasie, lascia che sia la carne a parlare, coi suoi colori, i suoi sapori e i suoi tagli. Indirizza, sapientemente (e la sua comunicazione mi è sembrata spesso atta a riportare un silenzio contemplativo sotteso, come contesto, ad ogni suo racconto), lo sguardo sulla carne e sulle sue mani che la toccano e la lavorano. E’ un dialogatore pragmatico che non lascia nulla di intentato e niente prima della prova. Quella dei suoi denti, del gusto e del giusto. Il cliente si adegua alla sua conoscenza e prova a capire.
Sergio ha dalla sua una serietà che non genera né sconti né voli pindarici. Concreto in ogni suo gesto, in quello di pagare e in quello di regalare, in quello di ricevere finanche in quello di gestire la stima. Ha un’aura molto potente, la sua toscanità si è inverata nella decisione. Nel parco utilizzo di superlativi e nelle risposte a contingenti piaggerie sui suoi prodotti. La sua comunicazione non cede di un millimetro, è sempre mirata all’evangelizzazione di un senso e al recupero del passato.
Passati oltre norcineria e macelleria, con freschi prosciutti di cinghiale e salami appesi nelle ultime propaggini di una bottega che a breve si arricchirà di un casolare, ripreso all’interno della campagna che guarda a sud, ci affacciamo su una terrazza-fuma-sigarette-e-ombra-di-pause per i dipendenti. Olivi, cipressi, San Gimignano e Volterra in lontananza, spirali di strade e di colline senza fine. La mente spazia e la carne ne giova.
Sono arrivato a Sergio attraverso suo figlio Andrea che, mentre io scendevo in Toscana, saliva a Milano. La comunicazione è da subito schietta. Il lei diventa tu con riserbo ma nello stesso tempo con sincera voglia di mostrare. L’argomento è sempre il padre.
Un uomo che non affabula ma conosce, senza il fascino della dirompenza ma con dei punti fermi che si fanno beffe di nomi altisonanti, di macellai famosi e di manifestazioni markettare. Come quella volta a Taste. Invitato sul palco da Simone Fracassi, per un evento sulla Piemontese, non entrò nel clima gogliardico se non prima di aver mostrato come assaporare la più classica delle battute al coltello, nella migliore maniera possibile: ne prese un pezzo, gli attorcigliò intorno la mano, scaldandolo e lo rilasciò al parossismo del suo profumo. Avvolgente e incauto. Ma mi rendo conto anche molto tranchant, almeno per la concorrenza…
Sergio è un grande insegnante, e non necessariamente di macelleria o di norcineria, è colui che fissa il segno del proprio mestiere nelle menti nefaste, in quelle incolte e in quelle supponenti. Ma credo che gli venga talmente naturale, da non poter fare altro che questo. Il suo bancone, con ancora il legno in bella vista dove adagiare le costate, si trasforma in una cattedra senza bisogno del predellino per mantenere la distanza. E’ così naturale starlo ad ascoltare, quasi paterno.
Le lavorazioni potrebbero essere infinite, così come gli accostamenti, e quasi quanto le mie prove.
Sottolinea con potenza olfattiva come la Chianina sia un’ottima carne per la quotata fiorentina, ma diventa straordinaria nelle lunghe cotture, negli stracotti, nei bolliti e nei peposi. Bisogna rispettare la tradizione della bestia, ma soprattutto l’alimentazione.
E qui Sergio diventa goebbelsiano, ripetendo poche e decisive parole in cui è nascosta tutta la sua filosofia. Fieno, erba, cereali e sottobosco. Da lì non ci si può muovere.
Il resto si enfatizza nel concetto di presa per il culo. La carne esteriormente deve essere asciutta, nemmeno umida, ma totalmente asciutta. Mi fa passare, nuovamente, la mano sopra su diversi tagli ed effettivamente esplode la siccità. Meno liquidi perde la carne, meno ne perderà in cottura, più la dimostrazione della corretta alimentazione si palesa. Più la carne si disidrata, più la triviale ombra degli ormoni e dello stress da alimentazione appare incontrastata. “Le carni vanno pesate. Ecco tutto”. Poi si può iniziare a giudicare e ad argomentare con terminologia da dizionario etimologico, ma prima c’è sempre il lavoro di un macellaio e, mai (ma è un mai silenzioso… che non sfiora i gaudiosi chef stellati) di un distributore. Così magari ci eviteremmo le sperticate lodi… ma tant’è… dal Lavazza all’Angus beef, tutto ruota attorno agli stessi concetti…

Gli assaggi sono una babele di sapori, cotture, temperature, stupori e occhi sgranati. 

–  A partire dal peposo. Assaggiato la sera precedente in un noto ristorante di Pisa, cucinato alla Renè Ferretti, delude assai. Riassaggiato con il poco pregiato muscolo di Chianina e il pepe nero di Rimbàs tritato e vino, cucinato da Daniele Fagiolini, alle Colombaie, per le canoniche lunghissime 5-6 ore a pezzetti nettamente più piccoli, rilascia un sapore deciso dato dalla carne, uno piccante dato dal pepe e uno sfumato di dolce dato dal vino… una meraviglia.

–  Poi è la volta del controfiletto (su tagli come questi, le frollature di Sergio possono tranquillamente raggiungere il mese e proseguire per altre tre o quattro settimane sotto vuoto) e del suo grasso che mantiene la succulenza… non prevale la fibra ma la dissolvenza al palato.

Il resto è fatto dalla sua arte di norcino che passa dal mallegato alla spuma di gota (entrambi ancora da provare…) al salame di suino grigio, spazia dal lardo di cinta (sottolineabile con pochi aggettivi se non quello di coriaceo e di soave) ad una strepitosa salsiccia spalmabile con aglio e pepe,  fino ad arrivare alla verticale di prosciutti (cinta senese e suino grigio di varie stagionature e differenti consistenze… con il grasso a farla da padrone nel caso dell’insano polinsaturo di quasi tre dita che cinge la cinta dalla zampa lunga e raffinata, con un cromatismo tra il brunellaceo e il bianco di zinco; e con il profumo di corteccia e bosco a rispondere a tono, tra il palato e i denti della fetta di grigio toscano). Poi c’è il guanciale (degno accompagnamento di una straordinaria carbonara), che rilascia un accentuato, ma soprattutto inaspettato, aroma di nocciola selvatica, i fegatelli di San Miniato (che si nascondono sotto uno strato di grasso sciolto a bagno maria) al finocchio selvatico, assuefacenti; il lonzino al vinsanto, dolce e raro.

Forse ci sono addirittura troppi tagli e troppe fantasie per rimanere tutte nitide nella memoria, ma Sergio li dirige tutte con chiarezza, non lasciando nulla di intentato e nemmeno nulla all’approsimazione. Si va fino in fondo, nel bene e nel male, nella sicurezza e nel buio, a volte non trovando il sapore, a volte dando il nome ad un’origine che rimane lì ad imperitura mimesi…

MACELLERIA FALASCHI
VIA AUGUSTO CONTI, 16
SAN MINIATO (PI)

Il tuo indirizzo email non sarà pubblicato. I campi obbligatori sono contrassegnati *