“Riportando tutto a casa”… Giovanni Verdese/Canelin

Visone. Piccolissimo paese alle porte di Acqui Terme. Strada statale, o provinciale, o comunale, tortuosa. Curva a sinistra. Ed ecco lì la pasticceria Canelin. Pochi pozzetti dei gelati. Odore di antico. Banco in stile che rifugge qualsiasi modernizzazione e una dipendente non troppo interessata alla chiacchiera.
Prendo un cono. Buono ma senza entusiasmo (ancorchè scoprirò, in seguito, che il gelato viene preparato secondo canoni propri e con pasta di pistacchio creata direttamente in laboratorio). Scorgo il listino prezzi dei torroni e m’informo. Solamente due tipi. Normale e ricoperto di cioccolato. “E il proprietario?” chiedo, “E’ nell’altro negozio. Quello di Acqui Terme”. Saluto e riparto.
Tre kilometri di immaginazione spinta e assolutamente fuori luogo. Penso: “Si è trasferito nella grossa cittadina così è più appetibile. Posto fashion. O qualcosa di simile. Gelati in un bancone suadente. Fila alle casse e molta, troppa gioventù”.
Il pregiudizio ha ucciso quel viaggio. Quello che mi ero prefigurato, aveva il volto affabile del venditore professionista, di chi stava iniziando a togliere invece di continuare a mettere. Di chi rimaneva lì ma solo perchè aveva visto la possibilità di riempire il proprio locale.
Arrivo ad Acqui. Vedo una piscina piena di giovani virgulti in preda a turbolenze ormonali. Mi acquieto sul mio pregiudizio e accompagno il mio posteggio davanti al Torronificio Canelin con rassicurazioni sulla quantità di tempo minimo che mi sarebbe servita per sbrogliare la “pratica”.
Ecco. Il mio sogno di modernità, affabilità, colori vividi, sguardi ammiccanti, ottoni e luci scintillanti è andato in fumo appena varcata la soglia.
Due dipendenti mi dicono che il proprietario è impegnato nella lavorazione del gelato. Ma lo chiamano lo stesso. Dopo nemmeno un minuto, eccolo.
Tra tutti gli artigiani che ho conosciuto, Giovanni Verdese è sicuramente quello che più di tutti ha disatteso l’immagine che mi ero fatto di lui.
Anziano. Molto. Ottant’anni. Ingobbito dal lavoro e dalla vecchiaia. Rughe fiere e in bella vista. Parlata lenta. Barba sfatta. Quel non so che di trasandato più assimilabile alla fantasticazione di un mondo proprio che all’abbandono della realtà messa in comune con gli altri. Nessuna maniera, nessuna sovrastruttura.
Placidamente, l’impressione è quella di un vecchietto burbero e monotono.
Altro errore. Madornale.
-“Torrone”, io.
-”Gelato?”, lui
“No no, proprio torrone”, gli ribadisco, tra l’affabile e l’arrogante.
Gli si illuminano gli occhi. Come non avevo mai visto prima. Entra in laboratorio. Ne afferra uno. Lo scarta. Lo taglia con un colpo solo. E ce lo fa assaggiare.

Se il torrone di Canelin avesse un futuro, avrebbe l’arroganza di uno scaffale gastronomico pieno, in monopolio, enorme.
Ma questa è la storia di un torrone magico… con un presente laconico e senza un domani… 
Zucchero di canna, miele di acacia, uovo e tonda gentile delle Langhe. Il tutto fatto seguendo una ricetta dello zio (il vero Canelin), tramandata per un paio di generazioni e destinata a morire. 

Il parossismo della solitudine (quell’estrema vetta che incanta e rende l’aria rarefatta, principalmente per l’immensa difficoltà nel portare oltre questo tipo di lavoro, fatto di sacrificio, di sveglie, di forni accesi, di nebbie autunnali, caldi estivi e assoluta conoscenza del territorio), in questo torrone, invera la sua necessità di non avere un futuro ma solo un lento ma inesorabile memento mori. 
Questo luogo, che vedrà nascere una cartoleria o un bar con la Gazzetta a fare da trait d’union e che vedrà sbiadire il ricordo di una giornata trascorsa, di un passato comune, di un momento di poesia colto al di là di una coltre di utilità e maniere e di una schiena incurvata sopra un lavoro che nessuno più saprà fare e nessuno più saprà tramandare, sarà la testimonianza di una colpa e di un errore condiviso.
E chissà se qualcuno mai lo ammetterà…
Quello che per ora rimane, è Giovanni Verdese con il suo torrone. Non accomunabile. Unico.
Il grande sapore di Langa lo puoi trovare altrove, il sapore forte e deciso del miele anche, la durezza (che per lui è l’unica possibilità di esistenza) è già radicata nell’immagine comune. Quello che non c’è, e chissà se ci sarà mai, è quel retrogusto unico di dolcezza che non arriva mai fino in fondo, che ti lascia sempre la voglia di un nuovo pezzo, e poi ancora di un nuovo pezzo, e ancora di un nuovo pezzo, e che a stecca finita, mentre guardi i sorrisi degli altri che non mostrano cedimenti, che non parlano di acidità, nausee, denti e zucchero, ti lascia in bocca un retrogusto unico di dolcezza che non arriva mai fino in fondo…
Ricordo e abbandono: ecco la storia di un artigiano senza tracce…

TORRONIFICIO CANELIN
VIA ACQUI, 123
VISONE (AL)

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