Se il Pecorino Toscano ha ancora una speranza… Daniele Francioli

Parco naturale della Maremma. Alberese. In quella che una volta era la natura più incontaminata e in quella che adesso ha addosso quella veste buocolica, con un filo di rossetto turistico e quella voglia di scrollarsi di dosso la riforma fondiaria, le bonifiche e la povertà. Bellezza ce ne è ancora tanta, così come quei viottoli che portano alla marina, quei miraggi dell’orizzonte, le mandrie al pascolo, le gradazioni nelle tonalità di colori che non possono fare altro che mutare durante le stagioni e, in ultimo, quei butteri, così scenografici e affettati nelle fiction agiografiche di oggi dì, ma così rari e salvifici nel paesaggio e nel mantenimento di un biotopo realmente a rischio. Ecco, Daniele Francioli era uno di loro. Uno di quelli che cavalcava, uno di quelli da due pale di fico d’india al posto delle mani, uno di quelli che la bontà della terra, quella placida, quella che non può fare altro che trasformarsi in cibo, ce l’ha sul volto. Così vivo e così spiccio. Molto diretto quando cortocircuita la mia età via mail e molto pudico quando abbassa gli occhi, rischiarando l’umiltà della terra, davanti al volto vivido di realizzazione di noi subumani con in bocca il pecorino.
Daniele regala quella voglia di diventargli amico. Non ha anfratti troppo nascosti. La via è dritta. Si districa, insieme a sua moglie Gitana (nome infelice di un padre “possibilmente” stravagante…), tra mutui e bellezza. Una quasi autarchia che parte dai pomodori e dalle albichocche per arrivare fino alle confetture, riprende colore attraverso la coltura di alcuni cereali e la molitura di qualche oliva, per arrivare fino all’allevamento delle pecore. La maggior parte di razza sarda – retaggio dell’invasione che la pastorizia isolana ha perpetrato e portato a fondo in una tradizione toscana vittima di sciacalli e turisti americani con il cappellino dei Miami Dolphins e la casa diroccata dove buttare quei tre milioni di dollari per renderla il più simile possibile al Mount Rushmore – , il resto di meticce frisone. Il solito refrain: la razza è nulla senza l’alimentazione. E qui Daniele ha iniziato, aprendo. A se stesso e alla libertà delle pecore. Quella stessa libertà che ha portato dentro un lupo (con la descrizione icastica di questi occhi ovini alle cinque di mattina rubati per sempre al terrore), che ne ha lasciate per terra più di venti. Ma il rischio deve essere al servizio della serietà. Altrimenti diventa gioco e immaturità. Quella che perdura nel considerare la bestia come bestia o al più come introito, abbandonando la morale del cibo, della sua trasformazione e di quell’immagine che, se sovvenisse all’oste mangiante il bucatino cucinato alla “cazzodicane”, provocherebbe indicibili conati e sussulti di trasgressione animale. La bestia è quello che mangia, quasi quanto l’uomo. Sfortunatamente il cannibalismo è vietato, altrimenti l’alimentazione diverrebbe la primarietà. Ingrassa quello che vorresti mangiare e il latte che vorresti bere. Uomo o bestia che sia…

Quindi iniziamo la degustazione. La digressione termina nel momento dell’assaggio. Pensieri e discorsi decadono. La ricotta, lavorata con un’aggiunta di latte per darle quella cremosità difficile a questa latitudini, trova la Sicilia e l’importanza del dolce, senza abbandonare quella granulosità, sogno di massaie dedite alla semplicità. Profonda al gusto. Apre il percorso quando dovrebbe chiuderlo. Ma tant’è. Gli assaggi sono sempre preda dell’improvvisazione. E così sia. Riempie la bocca ma un po’ d’aqua e un buon miele di melata me la puliscono. 

Primo sale abbastanza salato. Sia al primo assaggio, vittima della temperatura del frigorifero, sia con il calore riacquistato. Diminuisce ma la buccia toscana è figlia della propria storia fatta di conservazione e sapidità.

Percorso in mezzo ai pecorini, rispettando le stagionature e la termizzazione del latte. Non tutto prodotto a latte crudo, ma solo una parte. Qualcosa viene portato a sessanta gradi e lasciato lavorare. Il giovane è veramente espressivo. Ha classe e stile laddove ti aspetti il volto assuefatto della banalità. La stagionatura di tre mesi ha due facce: quella del problema di fermentazione (e della voglia di spettacolarizzazione del cliente che chiede al pecorino di essere un parmigiano e di creparsi come lungo affinamento vuole) e quella della persuasione. 

Veramente precisi sia nel gusto che nella giusta mistura tra sale e afrori di pascolo. Croste lavate, cagliate “chicchi di mais” (per le fiorite e per le cagliate acide ci sarà tempo, soprattutto con quella passione che spana gli occhi…) e nomi provocatori. Un buon riassunto… il resto è racconto delineato e preciso:

– Crudele: una miscellanea di latte crudo e di nome Daniele trova la possibilità di una fantasia senza distogliere dal percorso. Sette mesi di affinamento (per le grotte e le cantine di stagionatura c’è tempo…), profumo acido di erba bagnata, gusto umido ma contenuto. Senza uno spigionamento di sale. Acqua e pulizia con l’esplosione di latte e cardo finale (tra l’altro, un caglio vegetale sarebbe un buon viatico per il futuro…). Potenziale e attuale. 

Daniele scherza ma senza la supponenza locale del sarcasmo ad ogni costo. E questa è la sua immane forza. Altro che le mani (e i racconti giovanili-vacanzieri sull’irruenza…). È la serietà che non si può deludere. Cinque anni. Preconizzo e spero per il futuro di una tipicità ormai deflagrata…

AGRIBIOLOGICA LE TOFANE
STRADA PROVINCIALE DI ALBERESE, 59
ALBERESE (GR)

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