Si entra in quell’atmosfera a metà tra Olmi e Celentano… Fratelli Brambilla

Marzano, frazione di Merlino. Forse la campagna “milanese” più vicina al riposo. Incastonata nelle arterie (Rivoltana e Paullese) che popolano, spopolano e ripopolano la città, in mezzo al fiume Adda, è meta di domeniche fuori porta, giri in bici, ricerca di pace e di falchi della palude. In queste torbiere, dove il whisky s’identifica con una lussuriosa stanza di degustazione all’esterno di un castello, l’erba continua a crescere, i trattori ad imbrattare, le trattorie a cucinare sempre lo stesso pollo alla cacciatora e la stessa polenta, i camini a sfrigolare e la nebbia a confondere. Il tempo è stato costretto a fermarsi, negli sguardi, nelle cadenze gergali e nei cognomi. Qui, gli sciuri Brambilla hanno ancora una casa padronale con colonne “georgiane”, un campanile in adiacenza e sonnolenti vicini di casa. Campagna lombarda in tutto il suo calore e in tutta la sua definizione, anche in quella che la storia le ha tolto, trasformandola in macchietta e commedia delle differenze. Tra ansia, puzza di letame e paure ancestrali, si erge la tenuta dei fratelli Brambilla. Carlo, Michele e Diego.
Diciamo che l’ostentazione non attiene né ai desideri né ai limiti. C’è. Va notata ma senza una prosopopea del gusto. L’ingresso nella calda stanza centrale con camino, mater familias di lontana eco nostalgica e fragranza di stufato che rende roride le finestre in preda a goccioline d’autunno, sfuma verso la porta dove un tavolo di noce (?) talmente lungo, da dover esser stato amputato, campeggia in mezzo a quadri e ninnoli del passato. Mercoledì a casa da scuola e coperta a quadri sulle ginocchia. Pranzo e riunioni di lavoro. Una famiglia unita. In apparenza e non solo.
Di Diego ricordo solo la mano, di Carlo qualche chiacchiera con la cadenza a metà strada tra il ciclo delle stagioni e il modello cittadino, baffi indagatori, l’articolo determinativo davanti ai cognomi a mo’ di tappeto rosso, un po’ cummenda e un po’ approssimazione. Michele ci salva dalla nebbia e dalla non curanza. Ci preleva da uno spaccio agricolo, gestito da Campagna amica e dai fratelli, con qualche produttore di basso profilo, alcune zucche e l’idea di un trattorismo sovietico colorato da qualche felpa di pile e da qualche ruga ad alta gradazione alcolica. Ci preleva da un sabato qualunque in mezzo alla più rappresentativa pianura padana.
Direzione azienda. Allevamento di vacche di razza Jersey e Frisona. Qualche (oltre mille) suino, delle stanze di stagionatura posticciamente tradizionali, una porsche (che sembra uscita da una scena di “Lui è peggio di me”) all’interno di una stalla, a cui mancano solamente i fili del fieno e i polli all’interno del motore, e la casa “coloniale” di cui sopra.

L’assaggio di un tre anni di stagionatura, lontano dal padano e dal reggiano e anche, con beneficio d’inventario, dal tipico lodigiano, a latte crudo (unico tra i formaggi…) è un esplosione di unicità. Schivando l’eccezionalità riportatami da Michele, cerco di comprenderlo. Giallo estremo, quasi profondo, si erge a manifesto culturale dei formaggi di pianura, delle sue balle di fieno, dei suoi dialetti e delle sue nebbie: pastoso, lungo e lento, con persistente desiderio di camino, paiolo e notti senza luna.

Quando ci muoviamo lo facciamo all’interno della proprietà. Forse 700 ettari, forse di più. Direzione Comazzo, dove spunta un antico portone in mezzo al nulla, un retaggio della mia adolescenza e delle mie merende campagnole e una domanda rimasta senza risposta. La fontana di Comazzo. Eponima dell’azienda, è una cascata musicale, appartenuta a Villa Pertusati, a sette gradini che, secondo leggenda, riproduceva, con il suo zampillio d’acqua, i suoni delle sette note. Pare che nel mondo ne siano rimaste solo tre, le altre sono a Versailles e a Caserta. Un capolavoro dimenticato nei possedimenti di famiglia.
Nel campo innanzi si apre il caseificio. Moderno, lindo e molto acciaioso, con un mulino sotteso dietro un ponte di grande fascino. L’ennesimo.

Il formaggio è quasi un pretesto. Me ne parlò Marco Vaghi raccontandomi del giallo dei loro stracchini che le Jersey regalano con il loro latte ricco di betacarotene. Gli stracchini, uno fresco ed uno a crosta fiorita, sono didattici, senza punte di sapore ma estremamente corretti. Lo yogurt è un buon prodotto di corredo… poi c’è il latte, il motivo che ha spinto me e il mio compagno Mauro alla ricerca… Nascosto, sotto la pioggia, senza la compagnia di nessuno, impongo, con venature di tirannia, la mescita. E così fu attimo. Grassi al 6% (la panna è un succedaneo miscelato all’interno del latte), giallo profondissimo, pieno con aromi straordinari, difficilmente riscontrabili altrove. Un latte che andrebbe preservato e non svenduto, che manca anche di quella nota selvatica-sporca tipica dei latti di pianura. Ma i Brambilla son tosti… vedremo…

A corollario, il tutto viene lavorato secondo metodo biologico, a lor vedere una gemma nel caseario lombardo, a mio avviso qualcosa d’interessante ma in molti casi sopravvalutato. Ancorchè per quelle dimensioni e per quei numeri, qualcosa di raro…
La burbanza diluisce e mi rimane in bocca un sapore di nostalgia…
…sarà stato il mio passato, sarà stato quel latte, saranno stati quegli odori di praterie e film con l’imbrunire delle cinque di pomeriggio…
…era un fascino a cui, una volta, avrei resistito… ma adesso sembra tutto così lontano… e un po’ mi manca…

LA FONTANA DI COMAZZO
VIA IV NOVEMBRE, 1 FRAZ. MARZANO
MERLINO (LO)

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