Si vedono due occhi e si sente una pancia… Gregorio Rotolo

Scanno è lontano. Incontro Gregorio nel mezzo dell’Italia, nel mezzo del suo cammino di artigiano senziente e raggelante.
Un uomo che non può fare altro che mettere addosso la voglia.
I cambiamenti, all’interno del suo percorso, non lo fanno più guardare. La rabbia gli pende dalle mani, gli lacrima dagli occhi e rimane lì, fraintesa, quasi a mezz’aria, tra la mia comprensione e il suo stato d’animo di chi preferisce non continuare a confrontarsi con il passato. La necessità di portare a casa la pagnotta, per sé e per gli operai, lo ha fatto allontanare dalle serate estive a contatto con le stelle, da un belare di pecore che pervadeva strade lontane e pascoli montani e sinuosi. La libertà e la felicità erano un baluginio, un istante di corrosione delle preoccupazioni. Come quando, in un racconto a metà strada tra il tradimento e il romanzo di avventura, le ricotte fresche, all’interno del suo piccolo furgoncino, decisero di empatizzare con l’esasperazione di Gregorio, fondendosi, curva dopo curva, in un una ragnatela di protezione e di rilancio.
Quella stessa ricotta, che nel tedio del piccolo negoziante appenninico ha rappresentato la quotidianità delle cinquecento lire e della soglia di sopravvivenza, ad Offida, nelle Marche, ha incarnato la bellezza della prima volta. Quella che ti fa capire che sei bravo e quanto sei bravo. L’attenzione di un medio caseificio di provincia ha tratteggiato un occhio diverso e lontano, quello stesso che garantisce unicità o quanto meno attenzione… l’unico che può togliere il pigiama e conferire abbrivio.
Gregorio inizia a uscire di casa, i formaggi li sente, li odora e li assaggia… la sua immagine è troppo potente per rimanere all’interno di quattro mura, il suo passato, fatto di fughe da scuola per andare a pascolare le pecore (iniziando a scrutarle, con la cartella sulle spalle, oltre le curve…), aveva bisogno di uscire fuori e di mostrarsi.
Centomila kilometri all’anno valgono la considerazione di critica e pubblico, ma Gregorio è un uomo diviso, uno che ha bisogno di se stesso per non poter più fare il proprio lavoro. E la colpa è la sua comunicazione, quella che non può fare a meno di lasciarti incantato. Il suo corpo e le sue mani non hanno bisogno di parole, convincono, vendono e fanno tornare… e il motivo è il sogno che il palato non ha la necessità di svegliare.
La solitudine è ben rappresentata dall’impossibilità di ascrivere il suo pecorino sotto una definizione ed un’immagine, all’interno di quella sicurezza che puoi ritrovare solo nella quantità, nelle file e nella standardizzazione. I molti all’interno dell’uno, che fanno dormire sonni tranquilli e rassicurano dando al formaggio un sapore univoco e piatto (90-95% è la percentuale a spanne dei lestofanti pastorizzatori del latte di pecora italiano… quando va bene… poi se va male c’è sempre “Turiddu u sicilianu e u miliardariu” che al porto di Amburgo imbocca i camion di latte in polvere… et voilà che la mungitura diventa uno spiazzo asfaltato dove scaricare scatoloni…), si trasformano, con Gregorio, nella propria antitesi. Un unicum all’interno di un carcere che riesce a sponsorizzarsi come fosse un’escursione sul mar Rosso. E la gente compra… “Tuscany?…Ah ya peccorinooo… I love Italia”. I ciurmatori sono imbiasimabili… quando vedono i calzoni corti, la macchina fotografica e un cappello vistoso non possono fare altro che pastorizzare…
Gregorio resiste e si oppone. Chissà ancora per quanto…
Dopo aver assaggiato i suoi prodotti e i suoi occhi che fanno provincia, posso tranquillamente lasciare a casa le remore e lasciarmi andare alla speranza. Ho iniziato a rotolare giù da un declivio…
Un gregge di pecore meticce, la sua “legione straniera”, un centinaio di capre, una mandria di vacche pezzate rosse e qualche suino. Tanta terra e ancora più neve e silenzio. Salumi di pecora, una caciotta ai tre latti che si sviluppa lentamente al gusto, rilasciando l’amaro in apertura, il dolce a seguire e una nota piccante nel finale, un  erborinato vaccino (che ho fatto fatica a definire tale…) cremoso con una fermentazione che rilascia note amare molto profonde, riportando sentori di Pannerone; e tre o quattro formaggi che non fatico a definire memorabili. Ecco quella definizione che mi lascia la libertà di non ripeterlo ogni volta…

– Gregoriano: partiamo dallo svelamento di un falso. Non è un formaggio a cagliata lattica. Se qualcosa lo avvicina alle piccole lavorazioni di Langa, non è certo la coagulazione acida… ma la raffinata morbidezza, quella che degrada dalla crosta al cuore. La rottura di una cagliata grossolana rilascia tutta la cremosità che non ti aspetti dall’amarezza. Un paio di mesi di stagionatura, proteolisi libera e poi… si ha in mano qualcosa di definitivo, forse di irripetibile… ma avevo promesso… 

  – pecorino di due anni: salgono i prezzi (sono pochissime le forme che Gregorio può permettersi di non vendere e di aspettare) e la complessità organolettica… Mia moglie, che credo non abbia mai mangiato nulla superiore al mese di invecchiamento, ha lasciato lì le certezze…. Forma di 15 kg, rottura della cagliata in parti più piccole per favorirne la stagionatura, color mandarino con minuscole e rade occhiature… sudato e lacrimante come il fortunato degustatore…

  – ricotta scorza nera: stagionatura, erba, silenzio, sole, muffe, sale, stagionatura e ruscelli. Non posso fare a meno di sentirmi all’interno di una pubblicità… senza ricordi, senza appigli con il reale e senza ombra… Il sorriso è lì e sembra tutto più facile.

  – caciocavallo barricato: latte vaccino, pasta filata, come nella migliore tradizione meridionale. Stagiona sei mesi in maniera naturale, poi un passaggio nella crusca, che ne rallenta la stagionatura, affievolendo lo scambio d’ossigeno con l’esterno, infine l’affinamento viene completato in barrique di Montepulciano d’Abruzzo. Il sapore è indefinibile. Ogni pezzo ne regala un bouquet raro e complesso. Dalle vinacce della buccia al fieno della parte più morbida. Qualcosa che rimanda all’assenza di passato e all’incertezza del futuro… godiamoci il presente di questo contadino come se fosse un deleterio e inconsistente carpe diem.

  – Poi c’è la sua salsiccia di pecora, passata con la cipolla e la ricotta fresca e assaggiata con i tajarin di Mauro Musso, che ha reso vano il mio sforzo di alzarmi dalla sedia per capire… 

…e infine c’è Gregorio, un uomo che non ti lascia scampo… l’unica speranza è la reincarnazione…

BIOAGRITURISMO VALLE SCANNESE
LOCALITA’ LA PRATA
SCANNO (AQ)

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