Tra il sonno e la veglia… Ottavio Guccione

Palermo. L’Antico Forno San Michele. In mezzo ai palazzi di una borghesia sonnolenta, abitudinaria e restia a fare entrare il nuovo da quelle porte di ingresso che sono rimaste chiuse per decenni. Poi capita che un giorno un enfant du pays decida di ritornare alla sua città. Così, senza una motivazione passionale o rinascimentale. Per una necessità di allargarsi, economicamente e idealmente. Come se una differenza, creata nelle lande lontane, affacciate sul canale di Sicilia, tra un gambero rosso e un saluto libico, di Campobello di Mazara (dove ci sarebbe tutto per smettere di fare qualunque cosa, dedicandosi all’ozio), non bastasse più ad un’immagine sbiadita di un prodotto, che stanno cercando di difendere, procrastinando una delibera all’imbarbarimento pronta ad accadere. 
Pane nero di Castelvetrano, il prodotto. Ottavio Guccione, il protagonista. Filippo Drago, il deuteragonista. Slow Food, la spalla complice e un po’ ruffiana. La tradizione (rimasta solo nelle mani e nel lievito di una signora di paese) che si stra volgarizzando, l’antagonista.
La storia è quella di un grimaldello assonnato, ex giocatore professionista di pallamano, non particolarmente assuefatto al tempo libero. Squadra di Mazara. Serate libere. Bellezze locali. Gioventù. Amore. Una storia da romanzo d’appendice, come ce ne sono troppe e come se ne consumano troppe all’interno della necessità. Ma qui c’è qualcosa di differente. C’è un ragazzo che ha la mattina libera e che decide d’impiegarla. E non al mare. Una futura moglie, vittima del pane (paterno…) e delle sveglie mattutine, prova a placare i suoi moti e si adatta. La carriera sportiva finisce e resta una passione per gli odori del forno e gli errori del lievito.
La pasta acida, nella lavorazione del pane nero, è quasi del tutto scomparsa. Esistono disciplinari e regolamenti, ma il raggiro è dietro l’angolo. E allora Palermo. Ottavio decide l’avventura. Da dietro lo sospinge una figura coraggiosa, quel Filippo Drago dei Molini del Ponte, bersaglio dei panificatori dal prezzo contenuto. La ricerca fatta sulla Timilia nera, grano d’uro ancestrale dal profumo obnubilante, nell’ignoranza artigiana del pane caldo, risulta troppo cara. Ottavio ne intuisce la differenza e inizia una collaborazione autarchica. Tumminia, grano duro e adesso anche grano tenero (coltivato sugli altipiani ennesi). Ma anche a Palermo la fragranza del pane non può prescindere dal suo calore. E allora gli scontrini battono cifre sotto l’euro, alle sette di sera, nella speranza dell’infornata pomeridiana, quella afrodisiaca per una serata in compagnia di un difetto e non di una qualità.
Ottavio lo sa, o almeno lo ha imparato, ma non può fare a meno di accontentare. Un cliente, dal nome che imbarazza, quasi quanto un Typical Italian Dish, gli chiede una fornitura di pane nero, interrotto nella sua cottura mattutina, in modo da poterlo ravvivare la sera e regalare ai clienti quella nota di “appena sfornato” di cui non possono proprio fare a meno.
Poi ci sono i soloni di Slow Food, quelli che scrivono “ed è proprio grazie alla timilia che il pane diventa nero…”. E certo, il famoso grano nero, quello che sostituiva il carbone negli incubi dei bambini della valle del Belice. Ecco il principio di difesa… En passant, il pane di Castelvetrano (ormai risultante di una miscela, fatta direttamente dal mugnaio, di almeno il 20 % di tumminia e il restante di “biondo” siciliano) è nero perchè biscottato sulla crosta, grazie ad una cottura breve a temperature molto elevate, che regala un pane compatto, privo di alveolature solenni (perchè così piace ai siciliani che devono trovare sempre sotto il dente un richiamo alla tradizione…), dato che l’aria non fa in tempo a spigionare tutta la sua forza.
“… da produrre ancora con l’impiego della biga”. Altra frase dall’incerta esegesi, considerando che la media delle bighe (o pre impasti) è il risultato della lavorazione con il lievito di birra. Cacciato dalla porta e rientrato dalla più classica delle finestre. E anche Ottavio, sulla questione, abbassa gli occhi e ammette placidamente che una percentuale la utilizza anche lui.
Le forme non superano il mezzo kilo, ancorchè il kilo sia un obiettivo nella testa di Ottavio, ma anche qui, il cane andrebbe svegliato …
Quello che il raggiungimento della meta ha portato via ad Ottavio è il profumo fascinoso, lontano e incerto del forno a legna. Lui mi assicura che il sapore ha un quid di percettibilmente più coeso. E le migliorie apportate dai forni elettrici, che per altri pani, uniformando la cottura ne migliorano anche gusto, vista e tatto, con quella scorza così cotta, tipica del pane di paese, di tradizione e di carestia, raggiunge risultati sorprendenti. E non posso che credergli. Ma “Palermo caput mundi” è stato un bisogno, quasi un obbligo. Perchè il pane nero è lui…
Ottavio prova a resistere, anche quando i clienti gli dicono di aver mangiato un altro ottimo “Castelvetrano” in un forno di un paesino “… Lucia, come si chiama… Campobello di Mazara”, prendendo l’originale per la copia e la copia per l’originale, senza accorgersi dell’uguaglianza… anche quando non ci sarebbe bisogno di niente oltre il sesamo e svariate infornate, e lui si ostina a lavorare sulle madri del lievito (una molto acida, che contrasta con il dolce del pane nero, l’altra, di tumminia, con un’aromaticità di straordinario impatto, uno delle migliori mai annusate…), finanche alla sua ritrosia, alla sua inerzia verso la formazione e verso la cultura della spiegazione (i clienti se ne vanno, serenamente, dopo che alla richiesta “pane bianco?”, gli viene risposto no, oppure se ne vanno perchè è “rimasto” solo il pane del mattino…): lui si adegua, non sprona i suoi collaboratori a raccontare, a chiedere il perchè di una scelta, ancorchè la più estemporanea e abitudinaria possibile. Lui continua a sfornare…
E io, in maniera possessiva ed egoistica, non posso che essere felice. Primo, perchè ho lanciato un’ancora, da cui sarà difficile muoversi, secondo per la bontà del prodotto che viene riversato, come un bagliore, nella mia memoria:

già detto della fragranza sprigionata dalla tumminia di Drago (con cui Davide Longoni elabora una tradizionale micca di un kilogrammo, di color rosa antico…), già detto del dolce e del biscottato e già detto della compattezza… quello che rimane sono l’almanaccare di Antonio Cappadonia che ha pensato stupore e lo ha trasformato in un gelato, e la capacità di Ottavio di rinnovare una tradizione, trasformare il piacevole in bello (come nell’aggiunta delle olive, delle mandorle o dei pomodori secchi) e regalare ad un palazzo, ad una via e ad un quartiere, un odore antico a cui legarsi e con cui svegliarsi, per ora solo letteralmente, ma la metafora potrebbe essere pronta ad accadere… 

Lui non si è ancora convinto, cincischia, ha quella malia comunicativa bisognosa di quattro caffè, quella che ti fa chiedere come interessarlo, da che parte procedere con la comunicazione… ma che una volta trovato lo spannung, ti regala sorrisi, confidenze (non ama troppo le troppe orecchie… la sua timidezza riporta ad una visione profonda del pane, fatta di sveglie mattutine, mani bruciate e annerite, magliette bianche e pale di legno… sviluppata in rivisitazioni di sfincioni, lavorati con la tumminia, di meravigliosa fattura e profondo sapore, di focacce bianche dove infilarci il naso, prescindendo da topping e condimenti, e biscotti lavorati all’antica, con quei pochi ingredienti che fanno di una casa, la casa, nella memoria e nell’austerità di un balcone, una sedia in vimini, una vestaglia nera e un passeggio paesano…), foto, video e lo stupore di poter viaggiare e raccontare il suo pane.
L’interesse della gente lo stupisce, lo rende più coeso con la sua indole, quella di romantico fornaio siciliano, alla mercè di una quete cavalleresca…

L’ANTICO FORNO SAN MICHELE
VIA FEDERICO PIPITONE, 61
PALERMO

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