Tra mito, filosofia e formaggi… Vittorio Beltrami

Cartoceto. Medioevo e uliveti. Pochi kilometri dal mare, una propaggine industriale dal nome sinuoso (Lucrezia) e tornanti ad occhieggiare sempre più da vicino quest’antico borgo, fatto di piazze, ciottoli e piccole vie prevarica-turisti. Da qui si assisteva agli sbarchi dei Saraceni. Da qui si decise di quale ducato fare parte. Da qui la valle del Metauro, con i suoi salici e i suoi pioppi, si getta in boschi senza fine. In quell’antropizzazione assente che del selvaggio ha mantenuto il decoro. Piccoli borghi sparsi, frantoi, alcune residenze signorili, strade con i segni delle nevicate e una lontananza che mette quasi paura. Il mio stato d’animo, di solitudine e orrore del vuoto, ha preso la veglia metropolitana del suo essere coscientemente stressato e l’ha trasformata in una retromarcia a fil di arbusti, all’interno di una strada bianca, alla ricerca di un Covo di Briganti e di una stalla. A salvarmi, pochi secondi dopo il mio disorientamento, arriva, con la sua jeep e la sua camicia rosa, Vittorio Beltrami, uno di quei personaggi da una volta nella vita. Mi ha letteralmente tirato fuori…

Il mio latore, Mauro Ricciardelli, tenutario della Locanda Belvedere sulle colline romagnole, mi aveva messo in guardia. Nonostante la fama, la disfida presentava delle oscurità da provare e sondare: in un amore o in uno scontro.

La storia dell’affinamento, dell’allevamento e della caseificazione italiana in una mezzora sudata e in un dialogo sincopato, quasi oracolare…

Vittorio Beltrami è un uomo trasognato e cognitvo. Mostra tristezza ancorchè dalle sue parole traspaia serenità, quasi felicità. Soppesa ogni termine, rimane sospeso e istrionico, ma senza prosopopea. Con quegli occhi estranei di chi sta ponderando il vuoto. Uno sguardo al passato, mille storie da raccontare solo nell’accenno, e quel presente che gli riserva l’immagine sbiadita del futuro. E il suo terrore diventa tormento. Meglio rifugiarsi nel ricordo e tra le sue capre. Sonoro nel suo silenzio, guarda le bestie trovandoci fiducia. La sua fuga dal mondo e il suo rientro, attraverso la fama e la vendita, credo siano strutturalmente convenzionali… ma assolutamente condizionati dalla povertà: di animi e tasche vuote…

Cento capre in lattazione, perlopiù camosciate, ed eterogenee razze di polli. Facendosi baffo dell’iride, i piumaggi svariano dal vinaccia al viola, dal nero marans alla grisa, dal caleidoscopio al fulvo inglese fino al verde acqua domestico.

Discutere è un monologo, travestito da dialogo, in un flusso che arriva fino alla nostalgia… di non avere più orecchie da corrompere e di doversi accomodare a guardare l’implosione del suo mondo. La politica è distante, così come le piazze, le proteste di un uomo che faceva formaggi prima di denominazioni e di controlli, che ha portato la Dop dell’olio a Cartoceto, che ha preso un antico frantoio e l’ha trasformato in palazzo, con le sue grotte di stagionatura dei pecorini e le sue neviere diventate fosse per il formaggio. Retroinnovazione. Ecco la parola che tanto lo rappresenta. Forse abusata, forse con più significante che significato, ma nei boschi, quando si osserva l’allevatore, si trova spontanea la risposta. Un uomo oltre la malattia e oltre gli anni. Così antitetico da portare a qualunque sentimento. Dall’odio all’adorazione. Così moderno da superare facilmente il mio ostacolo definibile nel tarocco dell’ “Affinatore”.

 

Non lo tollero. Nella gran parte dei casi è uno stronzo, prestato al formaggio. Quando va bene, con quel briciolo di comunicazione rubata in alpeggio, fa la figura del maestro o dell’eroe, incantando tavole di ristoranti e commensali proteolitici. Quando va male, diventa il principe dei mistificatori, con buona pace di allevatori e casari.

 

Se ne salvano pochi…

Così, dal mio approccio pregiudicato e bellicoso, è venuto fuori un racconto sinergico, dove francamente non ho capito nulla. Ma tant’è…

Arrivati al vero covo, mi mostra dei fiori che aveva raccolto per noi, insieme alle lusinghe di una colazione mai vista. Le quattro chiacchiere di numero lo riportano a Massimo Villa, uno di quegli artigiani che non ci sono più e che non ci saranno più. Uno dei pochi che parlava con gli allevatori, salvandone produzioni e tradizioni (ora c’è suo figlio Matteo a sbrogliare la matassa…). Uno di quelli che ha condiviso con Vittorio la nascita di un mestiere.

I pecorini si perdono nell’alta valle del Metauro, in stalle senza nome e senza codice comunicativo, ma recalcitranti all’idea di non potere essere conosciuti. Vittorio promette e io mi fido. Fossa, vinacce, grotte, barrique, erbe, foglie, cenere, tartufo e conce varie.

Umidi, profondi, con quel briciolo di piccantezza vicino l’unghia sintomo di straordinaria stagionatura. Foglie e sottobosco ritornano al palato senza soluzione di continuità. La cosa più stupefacente: nessuna suadenza, nessuna facilità gourmet di nascondimento della materia prima (il latte) sotto concezioni parafilosofiche di affinamenti, affienamenti o infossamenti. Un mezzo e non un fine, ecco cosa deve essere quel mestiere.

I caprini, quelli preparati da Elide, la moglie di Vittorio, creatura gentile di epoca indefinita e di modi sicuri, restano estremamente lattici nel fresco, molto lontani dall’acidità della capra, assolutamente perfetti associati a composte dolci, nella stagionatura e nell’affinamento, che Elide sviluppa, seguendo le stagioni, passando dalla calendula al basilico, dal finocchietto alla pimpinella. Ottime proteolisi, croste distaccate nelle muffe, gusti precisi ed estremamente raffinati. Hanno qualcosa di francese che, se non ci fosse, li caratterizzerebbe di più. Fieno autoprodotto ed assenza di fermento ridanno tutta la difficoltà di una degustazione che distanzia la forma dalla sostanza. L’apparenza transalpina abbandona un gusto definito, quasi montano, che Vittorio ed Elide hanno creato e rilasciato alla definizione.

Vittorio, nella sua tranquillità di definire Gualberto Martini come il più bravo casaro italiano, nella sua necessità di parlare con il figlio pre-esame, nella sua cura prodigiosa e istrionica verso la parola e nella sua comprensione delle persone e delle caratterizzazioni degli angoli e dei momenti della giornata, colora tutto con un commiato fuori dal tempo e fuori dallo spazio: “Mi devi promettere di tornare, devo dedicarti il tempo che meriti, passi la giornata con me e la mia famiglia e conosci il mio mondo… così facciamo una passeggiata sotto la quercia e parliamo della vita…”… What else?

 

GASTRONOMIA BELTRAMI

VIA UMBERTO I 21/23

CARTOCETO (PU)

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