Un antico panificatore… Maurizio Sarioli

 

Brescia. Quando lasci la tangenziale e addentri la macchina all’interno del centro, è come se tutto fosse più claustrofobico. Una collina con dei vigneti appariscenti sovrasta case da ricchi, fontane e pavè. Brescia è un posto condivisibile e multifruibile, ma il centro e i suoi orari di punta odorano di borghesia spicciola. I vestiti firmati attorniano i netturbini che spazzano le foglie e le scarpe laccate d’argento – con finta permanente 2.0 su caschi d’oro e colli di lupo – attonite battono i passi del sabato mattina di preparazione al pranzo del giorno di festa. Le pasticcerie si riempiono, così come quei negozi aperti per bere un aperitivo, mangiare arachidi e dixi d’antan, e per vedere facce abbronzate a metà strada tra il villaggio vacanze sverna-palle-mostra-tette e il solarium cura imperfezioni.

 

In mezzo alle serrande chiuse e alle insopportabili zone a traffico limitato, appare il rinnovato panificio Sarioli.

 

Maurizio è il titolare. Ex Richemont, ex prodige ed ex velleitario. La ritirata dal Club lo ha fatto rinchiudere nelle sue ricette e nelle sue stime… un filo troppo. Una su tutti: Iginio Massari. Se pensate “che palle!”, tenetevi forte o mangiate per punizione un etto di cioccolato plastico. Nelle difficoltà, il consiglio non è mai stato richiesto a Giorilli, ma a Massari. “E’ il numero uno, anche nella panificazione”. Non so se la manifesta superiorità o la manifesta inferiorità sia un buon prozac per il continuo, però qui ci troviamo di fronte allo Zelig contemporaneo. Un uomo per tutte le stagioni. Brescia è stata fagocitata con rigurgiti al cloroformio. Ma la cosa più terrificante di tutte, è che probabilmente è così…

 

All’interno del laboratorio, penzolano dei fogli sulla porta d’ingresso. Le ricette del Massari che hanno portato a più di un trofeo. Biasimo? No, solo candore panificatorio, come quello che fuoriesce dal viso di Maurizio quando mi dice, “Non mi rubare troppo tempo che ho bisogno di andare a dormire”, con risata finale dialettalmente cadenzata.

 

Pani già pronti a lievitazione naturale, pizze con il lievito di birra pani in cassetta di kamut a lievitazione mista. Qualche collaboratore, una moglie che non ho compeso né in profondità né in superficie, un paio di figli non totalmente assuefatti al futuro della panificazione e un pasticciere (di buona fattura e discreti ingredienti il panettone, stile patisserie e sobrietà panificatoria), con qualche esperienza alle spalle in una pasticceria bresciana, unico altro gestore della madre e unico surrogato, in assenza di padrone.

 

Il kamut (che basterebbe uno sforzo intuitivo in più per trasformare in Saragolla, Percia Sacchi o Grano del Faraone), dalle controllatissime lande del Montana o del Saskatchewan, dove arriva in biologico con marchio commerciale a cui fa seguito una simpatica telefonata impiegatizia per certificazioni e diritti di copia, appare dolce, morbido, poco profondo, estremamente gestibile e digeribile. Non supera la notte, ma tant’è.

 

Se è un problema, non ne ho la certezza. Ma la vita di lieviti e pane è un argomento non avvezzo al bagaglio di Maurizio. Lui è veramente un monolite monumentale, qualcuno da conoscere e ammirare per il tempo in cui non ci sarà più gente disposta a credere nelle tenebre lavorative e nelle mani in pasta. E qui non si parla né di crisi né di obbligo di fare la notte pur di sbarcare il lunario. Qui si tratta di “non vado in vacanza, non prendo giorni liberi, anche la domenica mattina vengo nel mio forno. È mio e non può esistere senza di me”, con tutte le tiritere esistenzialiste sulla famiglia, sugli svaghi, sul tempo libero e sulle 35 ore a settimana. E fuori non ho visto parcheggiate Lamborghini o stagiste.

 

La disamina del pane, ad eccezione di una pizza prosciutto e funghi, morbida, suadente ed estemporanea quanto basta, si è concentrata sulla lavorazione con pasta madre. In acqua, e qui lascia il paradigma, non particolarmente profumato, con uno smalto acetico abbastanza bilanciato. Senza fronzoli, come i suoi pani, con quelle sveglie che ancora tintinnano nei miei ricordi. Il grano tenero (fornitore principale Molino Colombo…) è ricco d’acqua, aereo, estremamente alveolato e leggero. Un prodotto veramente interessante, per nulla facile e per nulla acido. L’aroma si espande e tende ad assomigliare a quello del vero frumento. Il monococco, lavorato in quasi purezza, se si fa eccezione per la parte di lievito madre, non arriva al mezzo kilo. Pezzatura più piccola per lavorare meglio un cereale con poco glutine e dalla complessa docilità. Tenutaria del cereale la Cooperativa L’Antica Terra di Cigole, luogo mitologico dove parte l’immaginaria linea che collega Brescia a La Morra e dove lo Shebar, che diventa Enkir e ritorna Monococco, cioè piccolo farro, divide e domina. Il pane è masticabile, profumato e profondamente salutistico (antiossidanti, glutine non tossico ecc…), unico difetto è che si spegne in tre giorni. La lavorazione più interessante resta quella con le ortiche e il riposo sotto fieno. Piacevolissimi abbinamenti, per nulla selvatici e profumi persistenti di antico. Idea che ha in sé dell’inconsuetudine.

 

Maurizio è veramente un bravo ragazzo, in tutte le accezioni che il termine può andare a cogliere. Ha uno sguardo rassicurante come quei consigli delle nonne che, anche oggi, ad un incrocio di strada in una metropoli senza nome, con il mendicante attaccato alla stringa, il freddo lacerante e tutti gli occhi rivolti verso il semaforo, illuminano e fanno lasciare tutto per una chimera…

 

 

PANIFICIO SARIOLI

VIA MUSEI 18

BRESCIA (BS)

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