Un panificatore immerso nella nebbia… Massimo Vitali

Sala di Cesenatico. Un paio di rotonde per respirare. Il mare, con i suoi canali di pantegane proattive e i suoi hotel-straccia-vesti-e-odore-di-pesce-per-colazione, è dietro l’angolo. La riviera romagnola è quell’eco sfortunata fatta di code, barbari, ristoranti da un tanto a due kili, maximal chic gastronomico e rapsodici gestori di alberghi adagiati su clientele storiche, fatte di sguardi allappati e balli di gruppo. Appena fuori, non serve molto. Un po’ di spazio, delle colline in lontananza e una campagna dimenticata ridisegnano lo scenario ma soprattutto le possibilità economiche. Il mare delle poche speranze e delle molte certezze abbandona i suoi figli-peccatori, immersi nei pensieri. Come si fa a creare, in un mercato così castrato e così saturo? Ci si sposta, magari sfruttando le antitetiche mostrazioni di bottegai e luccicanti venditori. Magari il calciatore, magari il vip di seconda fascia, magari la Rimini bene non abbisognano ma pretendono una diversità. E così, anche se brevemente, si mette in circolo una proposizione. In queste pieghe distopiche, ha creato il suo mondo abbozzato, un panificatore gentile: Massimo Vitali.

La frazione di Sala è una lunga strada fatta di case basse e nessuna insegna commerciale. Massimo toglie l’ombra del romagnolo ruspante e rimane raffinato ad attendere le mie voluttà voyeuristiche di sbirciare, vedere dove lavora, come vende e cosa produce. La sua attività è disorganica: piccolo negozietto a Borghi, laboratorio sotto casa e furgoncino sempre in viaggio per la distribuzione. Il tutto per una quotidianità basica e a volte fastidiosa. Perchè Massimo tiene i conti a posto con la semplicità del pane e la facilità di materie prime e costi. Nessun colpo di follia. Almeno sul pane. Nessuna micca, niente grandi pezzature, nessuna ricerca di grani antichi o profumi dispersi. Pedissequo nelle sue tartarughe, pani al latte, sfogliati. Nulla da segnalare oltre una normalità, superiore alla norma, ma assolutamente convenzionale e abitudinaria.

Ma allora la pazzia segnalata da Giuliano Pediconi dove sta? E perchè Renato Bosco mi ha parlato di lui?

Non credo basti il suo sorriso, la sua signorilità e un’ironia antitetica al luogo da labbra sempre dilaniate. Lentamente provo a rimuovere il velo di Maya…

Tre madri del lievito, legata, liquida e in bagno d’acqua (forse addirittura una quarta), per una gestione iconoclasta e autoreferenziale. Prove, test, microbiologia, chimica, autolisi, idrolisi delle proteine, cambi di temperature e gestione d’impasti (pane e lievitati insieme, praticamente tutte le notti…) in solitudine. Il tutto per delle bighe o degli impasti misti che nelle piccole pezzature e nella raffinazione molitoria vanno a perdere contrasti e sapori. Le consapevolezze estreme sulla materia prima non smuovono il lavoro giornaliero di scelte dettate dalla ragione, dalla famiglia e dalla voglia di ritagliarsi del tempo per sé e per il proprio diletto. La necessità gandhiana finisce molto prima dello stress. Come biasimarlo?

È che con quelle capacità, la velleità diventa un obbligo. Eppure Massimo sembra bloccato nella coscienza di sé e del suo sapere. Per paura dello Stato, dei soci, della crisi, delle spese e di tutto quello che vuol dire “Quotidianità”. E così ne paga proprio il prodotto più frugale: il pane.

Ancorchè limitatosi nella materia prima, prima dei colpi di genio, tira fuori un dolce, ricotta e scaglie di cioccolato, estremamente delicato.

Poi, come un David Thomas imbolsito dagli anni ma ancora in grado di rendere terrificante un passaggio di tram, esplode due colpi: il lievito chimico auto-prodotto e il panettone.

Cremortartaro, bicarbonato di sodio e amido che diventano storia e natura insieme. Dalle vinacce dei tini al lievito d’oggi. Massimo preferisce, creando tempo, farselo da sé. Rapsodico tra i rapsodi.

Sul panettone arrivo tardi. Ha già preso possesso del lungomare estivo di Milano Marittima, dei baracchini gastro-chic del Porto di Rimini (dove, tra fiumi di champagne, calciatori, Alfonso Signorini in tanga e il Pata Negra, il più tipico dei maiali di città, in una terra dove la Mora Romagnola è un sentore lontano, non disdegnerei un atto kamikaze…) e delle degustazioni dedicate dai nostri ambasciatori gastronomici in giro per l’Italia. Come ho detto, arrivo tardi. Ma Renato mi aveva indirizzato. Così assaggio.

Albicocche e pinoli: impatto forte del burro di cacao. Strutturato e straordinariamente umido. Il contrasto tra l’acidità dell’albicocca e la resina del pinolo è veramente interessante. Un dolce di antica memoria. Uno di quelli senza peso e senza domande. Da continuare a mangiare.

I tipi di panettone, dal torbato al Pandemon (dove le materie prime prendono quota…), scorrono nelle sue parole e non nel palato. Io mi congedo tra qualche consiglio e qualche sorriso, convinto che i suoi piedi siano talmente radicati nella terra, da rendere Pindaro un anticristo. Massimo è una di quelle persone ancora capace di pudore. Per questo, bisognerebbe abbassare un po’ i toni e chiedere la tutela di alcuni volti e di alcune professionalità. Almeno per il tempo di una fantasia…

 

IL FORNO DI MASSIMO VITALI

VIA CANALE BONIFICAZIONE 488

SALA DI CESENATICO (FC)

 

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