Un’immagine, le sue ombre e la sua timidezza… Salvatore Cappello

Palermo. Quartiere di Colonna Rotta. Al grido di “un iiiiuro (euro)” zoppica il mendicante di lotteria con la cassetta di pesce congelato in premio. I motorini si dipanano oltre l’ultima testa del grassone che fa da chioccia ai tre bambini sulle gambe, in rigoroso ordine d’altezza. Il venditore di frittola (interiora fritte nello strutto) tiene ben coperto con uno straccio il “panaru” in attesa del semprefresco da vendere al cliente. Negozi improvvisati tra macchine parcheggiate in terza fila, crateri stile Ground Zero, bruciatori ufficiali di cassonetti che non si possono guardare negli occhi pena domanda provocatoria in slang protocollare, la depressione dei Danisinni a mostare le sue saracinesche a mo’ di porte d’ingresso ma soprattutto tanti volti scrutanti e lontani, quasi rasserenati dal fatto di non contare nulla: per le pubblicità, per le banche, per i politici e per i borghesi cittadini. 
Qui, lontano dai clamori e dai carretti siciliani, si erge la pasticceria di Salvatore Cappello. Altro che manna, per una vista atrofizzata da quel popolare, privato del facile fascino della descrizione e rivitalizzato dal rumore e dai balconi arrugginiti.
Salvatore è una persone sfuggente, complessa da ordinare e da mettere sotto descrizione. Le parole su di lui si sprecano lungo tutta la penisola. Ne viene lodato il talento, ma l’umanità rimane nascosta: in pregiudizi, in giudizi e in battibecchi tra il professionale e il provinciale. A parole smentisce, ma le leggende, si sa, hanno le gambe lunghe. Si spandono, fioriscono, creano falsi miti e origini posticce. E poi far risplendere la verità, o quantomeno il verosimile, è applicazione complessa. A volte ci se ne dimentica, a volte ci si passa sopra o si sorride. E la Sette Veli rimane un falso storico. Salvatore, a me (ma non tutti ne sono convinti…), non mente. Così decido di sorprenderlo.
Dal mitizzarlo delle prime visite al biasimo delle mezzane, il passo è breve. Così, dopo diversi assaggi spalmati nel tempo e timide (con rare eccezioni) chiacchierate, decido di gettare la maschera. Lui non mi sta simpatico e nemmeno il rampante figlio pastry chef... Non credo alla solitudine del mio gesto, chiedo in giro, trovo conferme. Mi sento un pecorone e mi beo nella mia avvedutezza. Però, alla lunga, tutto questo consenso mi stufa. Non ne sono abituato. E non per particolari “rivoluzionarismi” o pose da mediocre untore di gossip gastro-uterino, piuttosto per un’inclinazione alla controprova.
Quindi lo sfido, giocando la carta dell’invidia. Sicuro della sua caduta e del suo livore, butto nel mucchio qualche frase sconnessa e qualche nome sfumato. Ma il più atteso tra gli ospiti, Monsieur Godot, non arriva. Mi rimane in mano il cerino più corto ma, deciso a non mollare, violento la mia idiosincrasia al fallimento e cambio prospettiva. Mollo la slealtà e provo l’affondo frontale. Quello che mi mette a nudo. Gli dico cosa penso di lui. Ma quello che penso realmente.
È ostico, nella conversazione ma anche nello sguardo. E l’assenza di affezione è qualcosa di generalizzato, forse di oggettivo. Nel sentirsi molto distante dal proprio sentore, Salvatore ha iniziato a mostrare apertura e un filo di dolcezza. Probabilmente ha iniziato ad aprirsi.
Tutto pensavo, eccetto di trovarmi di fronte ad un artigiano estremamente slegato al soldo. Poco interessato all’imprenditoria del dolce, alle spedizioni, ai catering finanche alle consulenze. Non vuole perdere di vista il proprio orto, un po’ per provincialismo, un po’ per fiducia verso quelle cose e quelle persone che lo hanno portato dove è adesso. Si guarda bene da muovere critiche, ancorchè si nota che non condivida alcune scelte dei suoi colleghi.

Si muove sul dolce, a volte con spericolatezza e barocchismo, mancando totalmente l’obiettivo (tipo nella Torta Volo) a causa di un gusto, troppo ricco e pieno, che non morigera la leggenda che si è creata intorno alle sue mousse, a volte in una maniera raramente raffinata, anche sul gelato e sulla granita (iperboli trascurate dalla maggior parte della “casta”…”).

Il classico (dalla pasta reale declinata in martorana alla cassata, dal cannolo al gelo di melone) è molto bilanciato, sia nella struttura (non c’è mai un eccesso di copertura al cioccolato o di glassa, è tutto estremamente palatabile e abbastanza facile al gusto…) che negli accostamenti (non ci sono mai azzardi…). Ricalca filologicamente la tradizione senza particolari rivisitazioni. 

Quando eccede, è sempre a servizio della materia prima. Poco prima della mania, ma molto ricercata, a volte raffinata. Non si lascia incagliare nei prezzi, ha un’artigianalità sincera che, unita alla ritrosia all’eccesso, fa di lui un mastro… qualcosa che lo ricongiunge al passato, ai ferri del mestiere, alla madri badesse e ai dolci nelle saccocce. Il suo laboratorio è sì contemporaneo, il suo lievito legato è una propagazione “zoiana” ma Turi (come lo chiama affettuosamente Santo Musumeci…) ha un volto riflesso nelle sue vetrine che parla del dolce siciliano più di qualunque altro… Simpatia o non simpatia, eccessi o frugalità…

PASTICCERIA CAPPELLO
VIA COLONNA ROTTA 68 E VIA N. GARZILLI 10
PALERMO (PA)

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